Fondamentalismo islamico e arrendevolezza occidentale. “La civiltà può ancora morire, perché è morta già una volta”

Sono più spaventosi i ventiquattro turisti uccisi dall’Isis o i ventitré studenti che, in una classe di venticinque, secondo un sondaggio sarebbero pronti a convertirsi all’Islam se l’Isis arrivasse in Italia? Evitiamo pure di stilare tristi classifiche, ma prima o poi bisognerà chiedersi se l’arrendevolezza e l’inerzia con cui guardiamo alla bestialità del fondamentalismo islamico non sia qualcosa di cui vergognarsi, almeno un po’. Sembra che ci importi davvero poco difendere – non solo e non tanto sul piano militare, quanto su quello culturale – il nostro mondo e i valori su cui si basa il nostro vivere civile, per quanto imperfetto sia. Ma forse il problema è a monte: quale mondo, quali valori difendere?

ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ PERDUTA

La verità è che forse non sappiamo più nemmeno riconosce qual è il nostro mondo. Veniamo da anni in cui abbiamo tragicamente confuso rispetto e rinuncia, per cui ci è sembrato assolutamente normale evitare crocefissi e presepi per non offendere (?) i musulmani, ci è parso discriminatorio e offensivo (?) pretendere che luoghi di culto non siano centri di reclutamento terroristico; abbiamo ancora più tragicamente confuso l’integrazione con il menefreghismo, ispirandoci al laissez faire, laissez passer, reputando troppo autoritario e xenofobo un processo d’integrazione che passi, in primo luogo, dall’apprendimento da parte degli stranieri di basi di lingua, storia e cultura del Paese che li ospita. Il doveroso rispetto per la diversità si è trasformato, troppo spesso, in peloso permissivismo nei confronti di comportamenti in totale contrasto con i nostri princìpi fondamentali. Quanta miope remissività, per fare un solo esempio, sulla condizione delle donne: se davvero hanno avuto un senso tante lotte e tante rivendicazioni sulla strada dell’emancipazione e della parità dei diritti, può davvero bastare l’affermazione “è una cultura diversa, ugualmente rispettabile” come giustificazione a tante arretratezze che ancora persistono, in certe comunità, rispetto alla figura della donna?

IL TRIONFO DEL “PENSIERO DEBOLE”

Sarebbe però fuorviante pensare che la nostra debolezza si misuri solo nei confronti della diversità, perché il nostro mondo è percorso all’interno dal “pensiero debole”, da quello che papa Bendetto XVI bollò, in una controversa ma coraggiosissima lectio magistralis a Ratisbona, come nichilismo e relativismo dei valori. Per restare a questa settimana, che cosa ha saputo produrre, a livello di pensiero e di idee, la cultura occidentale? Un penoso linciaggio mediatico nei confronti di due rispettabili stilisti, rei di aver dichiarato di preferire la famiglia naturale ai “figli sintetici”, e la programmazione, in alcune scuole elementari (per esempio a Trieste), di giochi di ruolo in cui i bambini devono travestirsi per imparare a superare concettualmente l’idea di genere, la distinzione tra maschi e femmine.

La tragicità di questo momento, in cui l’Isis – o chi per esso – fa stragi più o meno indisturbato in giro per il mondo, è forse che non c’è una civiltà ad opporsi con decisione culturale alla barbarie dei fondamentalisti: c’è invece un mondo in piena crisi d’identità, animato da uno scetticismo totale e cinico, in cui si rivendicano giornalmente i diritti più strani, a misura di singolo, mentre è vietato parlare di valori in cui si possa riconoscere una comunità. Un mondo in cui sembra che tutto sia pacifico e conquistato una volta per tutte, mentre dovremmo ricordarci quanto sangue e quante lotte hanno segnato il nostro passato (anche giusto cento anni fa) per certe conquiste. In fondo, per scuoterci dall’indifferente apatia in cui sembriamo rifugiarci, basterebbe l’inquietante profezia che uno dei più grandi classicisti, Ulrich von Wilamowitz, pronunciò pensando all’impero romano: “La civiltà può ancora morire, perché è morta già una volta”.