Il referendum, la “pancia” degli italiani, le possibilità offerte dal “sì”

GUERRA SUL CAMPO DISINTERESSE FUORI

Se scrivi del referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo, ti trovi gettato nel bel mezzo di un campo di battaglia, risonante di esplosioni e denso di fumi. Politici, costituzionalisti, giornalisti, opinionisti, politologi, TV e social media… sono tutti presenti sul campo. Tutti hanno consumato tutti gli argomenti. Nessuno convince nessuno. Fuori, il Paese reale pare poco interessato al merito tecnico delle questioni. E’ più attento alle questioni immigrazione, sicurezza, lavoro, sviluppo economico: insomma al proprio destino. Il nesso di questo con le riforme istituzionali ed elettorali resta labile. Più che il merito tecnico delle domande referendarie, ciò che entra in gioco è lo spirito collettivo, il trend psicologico del Paese, la sua “pancia”. Piaccia o no, questo è il terreno reale della battaglia. Come a dire: le opposte truppe e rispettivi stati maggiori stanno manovrando e combattendo fuori dal campo di battaglia reale.

IL FRONTE DEL “NO” OSSIA COME RICONQUISTARE IL POTERE PERDUTO

Il fronte del NO di D’Alema, Bersani, Quagliariello, Berlusconi ha pochi argomenti tecnici da opporre e molti clamorosi ribaltoni da scontare: aver votato SI in Parlamento, fare campagna per il NO nelle piazze. La loro è una posizione principalmente politico-tattica, dove tattica vuol dire “come riconquistare il potere perduto”. Nessuno pare sfiorato dalla preoccupazione che se costoro scuotono l’albero del NO, le mele finiranno nel cesto di Grillo. Il quale, avendo teorizzato che il NO è la forma più alta della politica, è probabilmente quello più in sintonia con la “pancia” di una parte del Paese. Che cos’è la pancia? E’ il deposito delle culture politiche, delle tradizioni, delle abitudini buone e cattive, delle paure, del sentire sociale e delle visioni del mondo. Non è né di destra né di sinistra, è il Paese reale. Secondo questa “visione di pancia” a che cosa servono oggi, in un Paese moderno, immerso nella feroce competizione internazionale, europea e mondiale, le istituzioni democratiche, progettate dalla Costituzione del 1948? Servono a dar voce al Paese, a eleggere propri rappresentanti alla Camera e al Senato. Il sistema elettorale – cioè il meccanismo che trasforma i voti in seggi – deve garantire questo diritto. Una volta mandati i propri rappresentanti in Parlamento, per i cittadini il gioco finisce. Di lì in avanti sono i loro rappresentanti, eletti su base partitica, a prendere le decisioni. I cittadini delegano e si ritirano a vita privata, fino alle prossime elezioni. Tocca ai loro delegati mettersi d’accordo. L’importante che tutti siano rappresentati e coperti.

LA DELEGA E LO SMARRIMENTO DEL SENSO DI RESPONSABILITÀ

La storia dice che per fare un governo – qualcuno dovrà pur governare – occorre mettersi d’accordo tra molti. E aggiunge che questi accordi tra molti eletti di partito sono sempre stati instabili e ballerini: un governo ogni 9 mesi nella Prima repubblica, ogni 17 mesi nella Seconda. D’altronde governare vuol dire fare delle scelte, assumersi responsabilità, mentre la delega permette di astenersene e di lamentarsi costantemente. Il vantaggio immediato delle coalizioni è che nessuno è mai davvero imputabile di responsabilità, di successi o di insuccessi. Questo funzionamento delle istituzioni ha prodotto una cultura di lunga durata nel Paese: quella dell’irresponsabilità propria e della colpa sempre altrui. Che, dunque, sente ora come un salto nel buio il passaggio a istituzioni rappresentative e di governo, che siano decise dai cittadini stessi. Ora, “il combinato-disposto” di riforme costituzionali e di Italicum porta esattamente a questo: che il cittadino-elettore sceglie il proprio rappresentante – sempre che si eliminino alcune storture che i partiti stessi hanno imposto (capilista bloccati e multipresentazioni) – e sicuramente il capo del governo.

SI HA PAURA DEL CITTADINO SOVRANO

Del cittadino sovrano hanno paura i partiti, i politici e i cittadini stessi. È una paura profonda, sulla quale tentano di costruire un ritorno al sistema proporzionale e ai governi di coalizione tutti i nostalgici dell’indecisionismo, oggi fautori del NO.  Che all’ombra dei governi indecisionisti siano cresciuti poteri sociali e istituzionali decisionisti  – banche, finanza, mass media e magistratura tra i primi – i quali hanno imposto gli interessi privati e di casta come interessi di tutti, finanziandoli con il denaro di tutti e con conseguente debito pubblico; che il Parlamento sia diventato una Camera delle corporazioni, che filtra in peggio ogni progetto di legge e di riforma; che un Paese ripiegato e indeciso conti come il due di briscola nel consesso europeo e internazionale, così da essere lasciato solo al cospetto del fenomeno immigratorio… tutto ciò viene paradossalmente imputato al progetto di riforme, che vuole assegnare ai cittadini la scelta del governo e che vuole trarre il Paese dalle sabbie mobili del declino.

SE VINCE IL “SÌ”

Si ripete il meccanismo “logico” della favola di Fedro: superior stabat lupus!… Posizione palesemente autocontraddittoria, ma sostenuta da gran parte del vecchio ceto politico, perché, facendo leva sulle paure del Paese e sull’intreccio tra società civile, corporazioni, poteri forti, gli consentirebbe di tornare alla negoziazione oligarchica. I cittadini devono stare alla larga dalla formazione dei governi! Tutto ciò in nome della difesa della democrazia.  Se vince il SI’, non ritorneremo certo nel paradiso terrestre, faremo un primo passo fuori dalla palude. E se vince il NO, non andremo all’inferno. Semplicemente, non succederà nulla: rimarremo disperatamente nella plaude. Tocca ai cittadini spezzare il gioco perverso del declino e prendere in mano il destino del Paese. Le vecchie oligarchie che oggi si ripropongono pomposamente come cavalieri della democrazia, ci hanno già dato un Paese in stagnazione e in declino.