Giochi da tavolo: un modo per stare insieme senza bisogno di parole

Questo articolo sui giochi da tavolo come strumento di inclusione avvia la collaborazione con il blog “LeggeròLeggero. Appunti di cooperazione internazionale” nato dall’iniziativa di un gruppo di studenti dell’Università di Bergamo. Il blog raccoglie esperienze, commenti, spunti di approfondimento, per offrire idee e aprire orizzonti. Seguiremo il ritmo delle loro riflessioni pubblicando un articolo alla settimana nella nostra rubrica dedicata ai giovani. Se questa iniziativa vi sembra interessante, continuate a seguirci e passate parola. Il blog è un progetto aperto che aspetta contributi sempre nuovi.

Ho sempre pensato che la parola fosse la base di tutta l’umanità, il mezzo attraverso il quale l’uomo soddisfa il suo bisogno sociale primario, ovvero quello del confronto con i suoi simili, per approvarsi, per confutarsi, per sentirsi parte di una comunità.

Per questo ho studiato e continuo a studiare le lingue. Non credo di esserci particolarmente portata, ma mi piace l’idea di potermi mettere in contatto con le persone, di farle sentire a loro agio nella propria lingua, nel modo più familiare che hanno per esprimersi. L’importanza che ho sempre riservato alla parola, al confronto attivo attraverso la lingua parlata, ha subito un forte scossone durante una conferenza sul boardgame design qualche anno fa.

Ma perché, i giochi da tavolo esistono ancora? Sì, cari miei, e stanno vivendo il loro momento di massimo splendore.

Inciso a parte, questa conferenza era tenuta da Spartaco Albertarelli, uno dei padri del game design italiano. Nel tentativo di farci ragionare su alcune dinamiche proprie del game design, chiede a noi poveri sbarbatelli alle prime armi con la creazione di giochi la fatidica domanda “ma secondo voi cosa vuol dire giocare?”.

Dopo alcuni tentativi, più o meno riusciti, di spiegare quello che per noi è il significato di giocare, Spartaco ci illumina con questa verità: giocare vuol dire accettare le regole. Significa che anche se non si parla la stessa lingua, anche se non si condivide lo stesso background culturale, tutte le persone sedute ad un tavolo scelgono volontariamente di astrarsi da quelle che sono le regole della vita quotidiana per immergersi in un altro mondo, fatto di altre regole che mettono tutti sullo stesso identico piano.

Da quel momento mi sono davvero interrogata sulla possibilità che forse la parola non è (sempre) il mezzo migliore per mettersi in contatto con un persona, anzi forse l’assenza di parole facilita in qualche modo le persone ad uscire dal proprio guscio (vedasi che, in termini tecnici, un gioco diventa vendibile all’ennesima potenza quando non ha dipendenza dalla lingua: infatti lo rende rivendibile all’estero senza necessità di traduzione, easy-peasy).

Da questa convinzione, confermata da alcune esperienze al tavolo di gioco, ho deciso di scrivere questo articolo per parlarvi di come i giochi da tavolo possano essere considerati un veicolo d’inclusione sociale. Più una tesi che una teoria, ma forse questo studio potrà diventare la base di un approfondimento più dettagliato in un futuro non troppo distante.

Non potevo avventurarmi in questo mondo senza l’aiuto di una persona esperta, un giocatore incallito, un game designer eccezionale, un educatore appassionato. Infatti, una parte di questo articolo sarà curata da Matteo Sassi, classe 1977, blogger e Game Trainer®.

Per una migliore e più facile comprensione della tesi proposta in questo articolo, abbiamo deciso di dividerci i compiti, al fine di lavorare su due livelli di lettura diversi: io mi sono concentrata sui giochi da tavolo come veicolo d’inclusione sociale con persone straniere, con le quali non si condivide la stessa lingua o lo stesso background culturale, mentre Matteo, forte della sua lunga esperienza come educatore, si è concentrato sul ruolo dei giochi da tavolo come veicolo d’inclusione per bambini e adolescenti con difficoltà di apprendimento.

Partendo dal presupposto che non ho mai avuto esperienza diretta in tale campo (ma intendo averne a breve), mi sono adoperata per intervistare persone che invece avevano già affrontato questo tipo di situazione, sia in Italia che all’estero.

Il primo in cui mi sono imbattuta è l’esperienza di Lorenzo Brivio, Lollo per gli amici, gestore di un bar a Bernareggio, comune nella provincia di Monza e Brianza. Ho conosciuto Lollo circa 3 anni fa ad un grosso incontro di Autori di Giochi da Tavolo. Grandissimo appassionato, organizza nei suoi locali alcune serate di giochi da tavolo totalmente libera, ognuno porta quello a cui vuole giocare e il gioco è fatto (perdonate il gioco di parole. Questa cosa mi sta sfuggendo di mano…). Tornando a noi, Lorenzo mi racconta di essere stato contatto dalla consulta giovani e dal comitato di accoglienza per migranti di Bernareggio per vagliare insieme la possibilità di invitare a queste serate ludiche un gruppo di migranti, cosa che poi si è concretizzata in un’esperienza durata un paio di mesi.

L’esperienza non è finita né bene né male. E’ semplicemente finita. Considerando insieme a Lorenzo quale poteva essere la causa, è stato riconosciuto che probabilmente l’esperienza è stata vissuta con leggerezza, nel senso che non ci sono state serate dedicate proprio al gioco come veicolo d’inclusione ma come un semplice “se vuoi giocare, gioca”. Come in qualsiasi situazione, non si può immergere la gente in un contesto non familiare e pretendere che ci si senta subito a proprio agio.

Probabilmente se si fosse dedicata la giusta preparazione alle serate, l’esperienza sarebbe potuta durare di più (come vedremo nel prossimo esempio). Quello che è interessante notare è che, nel tutto, ci sono stati dei giochi che hanno effettivamente stimolato l’incontro e il confronto al tavolo e, sorpresa sorpresa, erano giochi (quasi) senza parole. Il primo è Excape di Reiner Knizia (un nome che fa tremare i tavoli da gioco). Dice Lorenzo “(abbiamo utilizzato giochi come Excape) in modo da avere più numeri e meno lessico possibile. Questa poca difficoltà di comprensione di regole e la modalità push your luck (sfida la tua fortuna, una sorta di meccanismo alla lascia o raddoppia) che sta molto alle scelte della persona hanno alzato il livello di divertimento”. Prosegue “Siamo passati poi a giochi che richiedessero forzatamente un lessico come meccanismo base. Con Dixit siamo riusciti a concentrarci su delle singole parole che però assumevano significati ben differenti a causa di background molto diversi per ogni giocatore”.

Ed è proprio qui che con ogni probabilità si è creato un gap che ha inficiato la splendida iniziativa portata avanti dalla consulta, dal comitato e da Lorenzo stesso. Ma il fatto di essere riusciti ad individuare il problema è forse sintomo che con una preparazione studiata a tavolino le cose potrebbero andare in modo diverso? Proviamo con questo esempio.

Ho conosciuto il blog di Jeffrey Allers solo recentemente e proprio in occasione di uno scambio di opinioni sul tema dell’inclusione sulla piattaforma mondiale d’eccellenza per i giochi da tavolo, ovvero Boardgamegeek (praticamente la Bibbia di ogni giocatore). La sua esperienza con un gruppo di rifugiati a Berlino inizia ormai 3 anni fa quando, racconta “Refugees have been arriving in great numbers in Berlin for months. It was August, I believe, when German Chancellor Angela Merkel announced that the country would allow those fleeing the wars in Syria, Iraq and Afghanistan the opportunity to come here and apply for asylum”. Racconta di come tutte le città in Germania si sono adoperate per ricevere rifugiati e di come invece alcune fossero abbastanza reticenti alla nuova situazione. Jeffrey racconta della sua personale storia di volontario nei campi rifugiati di Berlino, di come abbia deciso di portare la sua esperienza di game designer al servizio di queste persone, per avvicinarle, per conoscerle e per poterle aiutare.

Non potendo, per ragioni di spazio, riportare l’intera storia nell’articolo, vi invito a leggere i dettagli della sua attività di volontariato direttamente sul blog, che vi linko a fine articolo. La sua attività ricreativa si rivolgeva soprattutto a uomini, padri, nonni ecc… insomma tutto quel compartimento maschile che spesso viene accantonato in favore di attività per donne e bambini. Ovviamente, il gioco in assoluto più giocato, era quello degli scacchi.

Language was a huge barrier. In fact, the only language we all spoke fluently, was the language of games”. Il linguaggio del gioco divenne talmente fondamentale da spingere Jeffrey ad aprire, in un vecchio locale dismesso di una chiesa, un Boardgame Café dove appassionati di giochi da tavolo, game designers e rifugiati potevano trovarsi per imparare a conoscersi attraverso il gioco. Il progetto, dopo alcune mesi è stato chiuso. Ma, come si dice, si chiude una porta e si apre un portone.

Il veicolo dei giochi da tavolo come inclusione sociale dei rifugiati tra i residenti berlinesi è stato talmente vincente che, nel giro di poco, tutto il quartiere di Jeffrey si è mobilitato per creare un momento di aggregazione chiamato Café ohne Grenzen (Caffè senza Confini) ogni due settimane. Durante questo incontro le attività che nascono spontaneamente sono tantissime: si balla, si suona, si cucina e, naturalmente, si gioca.

Il gioco da tavolo, in questo caso specifico, è stato il veicolo fondamentale attraverso il quale si è riusciti a dare ai rifugiati una tregua dai tristi muri del centro d’accoglienza, a farli uscire dal loro guscio ed è stato il mezzo attraverso il quale i residenti si sono avvicinati ai rifugiati, imparando a conoscerli e riconoscerli come amici e fratelli.

Il racconto non si ferma qui, il livello d’integrazione di questa esperienza si è spinta a fino a coinvolgere le istituzioni locali, game designer locali e stranieri, residenti di altre parti della città. Insomma, un successo su numerosi fronti. Il perché credo che sia da ricercare in numerosi variabili, prima fra tutte la disponibilità di tutti a farsi coinvolgere. Se manca quella, manca la base di qualsiasi attività umana.
Secondo aspetto fondamentale da considerare è la presenza di un game designer nella scelta dei giochi. Un game designer sa con esattezza cosa vuol dire creare qualcosa per far giocare le persone, ovvero metterle sullo stesso piano d’azione. Ancora meglio, è in grado di farlo senza usare le parole e utilizzando poche regole che, assimilate per imitazione, sono subito pronti a fornire un’esperienza di gioco completa e inclusiva. I giochi utilizzati da Jeffrey nella sua attività di volontariato non sono infatti tutti giochi editi, ma alle volte sono prototipi di giochi creati ad hoc per l’occasione.

Ma ora passo la palla a Matteo, sentiamo cosa nasce dalla sua esperienza!

Ho iniziato ad usare i giochi di ruolo e giochi da tavolo in ambito educativo quasi 20 anni fa. Venivo da una forte esperienza di gioco di ruolo. All’interno della mia parrocchia c’erano quattro pre-adolescenti che vivevano delle situazioni familiari molto particolari. Più volte li si poteva incontrare nel pieno della notte per le strade della quartiere a combinare qualche guaio ed all’interno dell’oratorio erano i protagonisti di risse e furtarelli. La loro difficoltà di integrazione era evidente sebbene fossero dei semplici ragazzi. Ho quindi pensato di proporgli un percorso alternativo basato sull’utilizzo di D&D (Dungeons & Dragons) come strumento. Io ero il master (ovvero conducevo la narrazione del gioco) mentre loro giocavano vivendo sul tavolo avventure e difficoltà. Le storie erano pensate per passargli valori ed insegnargli che è possibile divertirsi in un modo diverso.

Il progetto andò avanti per un anno. Poi venne ripreso da un dei due centri di aggregazione giovanile della città sotto la supervisione di un’educatrice professionale. Quando questa si sposò ripresi in mano il progetto fino al 2009. In questi anni ho visto tanti ragazzi partecipare a questi incontri. Lo scopo era sempre quello di aiutarli ad inserirsi nella società come membri attivi.

Oggi invece preferisco usare il gioco come strumento per aiutare il bambino a rafforzare le proprie competenze esecutive. Non lavoro con ragazzi con disabilità ma sempre con comuni bambini delle scuole materne ed elementari. L’esperienza e i corsi a cui ho partecipato mi hanno insegnato che bisogna prestare attenzione mentre i ragazzi giocano per poter intervenire ed aiutare i ragazzi. Alcuni giochi, infatti, fanno leva su alcune fragilità, ad esempio nel caso di disturbi specifici dell’apprendimento la memoria e l’attenzione possono essere leggermente compromesse. Attraverso il gioco il bambino viene aiutato a rafforzare queste competenze, ma l’adulto deve essere pronto ad intercettare un disagio e a proporre una modalità di gioco che sia più adatta al gruppo ad esempio cambiando gioco, adattandolo alle difficoltà dei presenti o anche semplicemente proponendo delle strategie per aiutare i bambini più fragili.

Ma ci sono tante esperienze forti che ci aiutano a capire quanto il gioco possa essere uno strumento inclusivo di soggetti con difficoltà motorie, cognitive o sociali all’interno del gruppo ed aiutarli nel sentirsi accettati dagli altri.

Filippo Brigo, dell’associazione MagnoGato – Tana dei Goblin Vicenza ci racconta di come un paio di volte l’anno organizzino assieme all’associazione ProzacMeno un evento ludico che coinvolge sia gamer che ragazzi con disabilità psichiche e ritardi cognitivi. “Apparecchiamo i tavoli con giochi come Pitchcar e Kaboom. Giocati in leggerezza e clima amichevole, permettono risultati indipendentemente dalla disabilità. A dirla tutta, arrivano anche dei disabili veramente competitivi! Sono due ore che volano, e che vedono grande partecipazione da parte della nostra associazione, perché al di là dell’impegno sociale, il divertimento è assicurato. La solidarietà ha sempre fatto bene allo Spirito e all’animo umano. I nostri associati vanno a casa divertiti e consapevoli di aver passato una serata diversa che però li ha arricchiti

Sara Evangelista, pedagogista, ci racconta di come quotidianamente utilizzi il gioco da tavolo all’interno del suo lavoro: “Utilizzo regolarmente il gioco da tavolo in studio come strumento educativo con bambini in difficoltà. Aprendo la scatola il bambino appare subito interessato al suo contenuto: di fatto ogni scatola contiene un mondo che, se svelato e scoperto insieme, cattura l’attenzione e la motivazione di ogni bambino. Io e lui “esploratori” alla pari, alla scoperta di una proposta che è attraente poiché attraverso il gioco il bambino riceve uno stimolo vicino al suo linguaggio di apprendimento, ludico appunto. Giocando il bambino si sente competente e capace. Entrambi siamo giocatori alla pari con il desiderio di divertirsi, legarsi, appassionarsi, apprendere e condividere”.

Oscar Suriano, ludologo e Applicatore Feuerstein ci racconta: “Ho iniziato questo percorso di inclusione ludica con un ragazzo Asperger circa un anno fa. All’inizio abbiamo iniziato incontrandoci e giocando tra di noi alla UESM. Piano piano abbiamo chiesto ad altri giocatori di unirsi alle nostre partite. Ci sono state difficoltà. Capitava che durante una partita si alzasse e se ne andasse arrabbiato perché convinto che qualcuno ce l’avesse con lui. Ma grazie alla sua perseveranza ed alla disponibilità dei giocatori la situazione è lentamente andata verso la normalità. Nei mesi è riuscito ad imparare a controllare la sua emotività ed si è riuscito ad amalgamare all’interno di un gruppo vasto dove conosceva solo me. Da circa 5 mesi riesce a giocare autonomamente con le persone che ha conosciuto nella ludoteca e da poco ha iniziato a portare suoi amici per condividere con loro questa passione. Ora è molto interessato provare a giochi dove si lavora sull’interazione proponendoli anche all’interno delle pause pranzo a lavoro”.

Gabriele Mari, educatore e game designer vanta una grandissima esperienza sull’utilizzo del gioco strutturato all’interno della cooperativa per cui lavora. Nel libro “Tuttingioco”, e anche nel successivo articolo pubblicato sulla rivista Erickson L’Integrazione Scolastica e Sociale, viene presentata la forte somiglianza tra il metodo di lavoro TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Related Communication Handicapped Children) e l’attività di Game Design (ovvero la progettazione di giochi).
In particolare la strutturazione del piano di lavoro/gioco è fondamentale tanto per organizzare un’attività con ragazzi autistici quanto nello sviluppo di un buon gioco. È infatti la strutturazione spaziale del gioco che permette sia di guidare un ragazzo con bisogni educativi speciali nello sviluppo delle proprie abilità, ma anche di far funzionare al meglio il cervello di una persona a sviluppo tipico.

Questi sono solo degli esempi di come il gioco possa essere uno strumento che permette di avvicinare persone con forti differenze. Il gioco da tavola è sicuramente un forte facilitatore dell’inclusione. Se avete occasione provate a partecipare ad una delle tante serate ludiche che vengono organizzate nel territorio. La magia del gioco si vede subito. Persone che non si conoscono si mettono al tavolo e iniziano a giocare riducendo a zero la difficoltà di interagire. Finita la partita, spesso si stabilisce un legame di rispetto molto forte che apre la strada alla comprensione ed all’amicizia.