Quando la tempesta perfetta scatenata dalla prima pandemia globale sarà solo un brutto ricordo“In che mondo vivremo”, recita il sottotitolo del saggio “Nella fine è l’inizio” (Il Mulino 2020, Collana “Contemporanea”, pp. 180, 15,00 euro), scritto a quattro mani da Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, “per i morti, per chi li ha perduti, perché la morte ci insegni la vita”.
La pandemia ha messo in evidenza le nostre emergenze dimenticate, la sfida è ora trasformare quelle emergenze cronicizzate e quelle tensioni che definivano il mondo pre-Covid-19 in leve di cambiamento, per rendere il nostro vivere insieme migliore di prima, e perché la fine di un mondo diventi un nuovo principio.
Di questo sono convinti gli autori, marito e moglie, sette figli, entrambi sociologi. Questa crisi, sottolineano Giaccardi&Magatti “come altre che l’hanno preceduta, ha una portata molto più profonda delle emergenze che solleva. È una lente per leggere il nostro tempo: un microscopio che mette a nudo aspetti che ci sfuggono e che forse non vogliamo vedere, ma al tempo stesso un telescopio per guardare più lontano, con uno sguardo più libero dalla pressione della quotidianità”.
Abbiamo intervistato Mauro Magatti, professore di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano e editorialista del “Corriere della Sera”.
La pandemia da Covid–19 è un evento eccezionale o uno degli effetti collaterali della società globale coi quali dovremo imparare a convivere stabilmente?
Direi tutte e due le cose insieme. Le pandemie nella storia ci sono sempre state, non è che dovevamo arrivare al XXI Secolo per vederle. Sappiamo che questo virus è l’ultimo di una serie, altri hanno avuto una diffusione meno forte, sappiamo anche che c’è una probabilità molto alta che la società da noi costruita, molto potente ma anche molto disordinata e caotica, produca eventi disastrosi. Per esempio pensiamo alle implicazioni del riscaldamento globale. Quindi la pandemia è un evento eccezionale, ma anche sicuramente collegato al modello di sviluppo.
Molti si domandano se il mondo nel quale vivevamo prima del febbraio del 2020, cioè muoversi senza mascherina, frequentare liberamente musei, andare ai concerti, potrà mai tornare. Invece di piangerci addosso, che cosa possiamo e dobbiamo abbandonare dei nostri modi di vivere, e cosa invece portare con noi e far crescere?
A cambiare non saranno tanto questi aspetti di percezione immediata. Altri vaccini arriveranno, piano piano ci vaccineremo tutti, comunque dovremo stare attenti, almeno per qualche anno e forse le mascherine resteranno. A cambiare sono cose più profonde. Il danno economico e sociale inciderà nei nostri assetti democratici, c’è e ci sarà ancora tanta sofferenza sociale, sarà difficile ricreare occasioni di lavoro. Dovremo farlo, tra l’altro, cambiando tipo di produzione, cambiando il modo di vivere. Quindi l’unico modo di uscire positivamente da questa situazione non è immaginare di tornare indietro, ma invece immaginare come andare avanti.
Di fronte al virus, abbiamo finalmente compreso che le nostre vite sono legate le une alle altre e che i nostri comportamenti condizionano i destini altrui e viceversa. Non più solo individui ma persone in relazione ciascuna con il suo carico di responsabilità, quindi non più “io”, ma “noi”?
Sì, non c’è nessun meccanismo automatico, sicuramente la pandemia fa vedere che la solidarietà non è solo un’affermazione ideologica. Noi siamo solidali nei fatti, perché appunto siamo legati gli uni agli altri. Da questo dato di fatto che la nostra cultura individualistica fa finta di non riconoscere, possono derivare conseguenze diverse. Non è che il riconoscimento di questo legame conduce necessariamente a esiti positivi. Però è importante, e l’abbiamo visto, se ci riflettiamo, se lo riconosciamo, proviamo a capire questo cosa vuol dire e cosa comporta, nuovamente da questa nuova comprensione può nascere un mondo migliore.
Nel saggio scrivete che “nell’emergenza, la politica ha ripreso centralità”. Desidera chiarire la Vostra riflessione?
È stato evidente nel 2020 che il mercato, il sistema dei prezzi, la concorrenza, l’emergenza sanitaria, il sistema delle aperture e delle chiusure non erano sufficienti. L’idea di far funzionare il mondo solo attraverso il mercato, anche questo abbiamo scoperto che non è sufficiente. Abbiamo bisogno di una politica che sappia organizzare e decidere. Anche qui non c’è niente né di scontato né di automatico, il ritrovato ruolo della politica può essere giocato in senso costruttivo e diventare un innesco per avviare processi di trasformazione, strutturare quel senso di solidarietà che abbiamo capito. Il ritorno della politica è evidente, ma adesso abbiamo bisogno di una politica “buona”.
Se è dunque vero che “nella fine è l’inizio”, come cambiare in modo da rendere questo momento l’occasione per una rigenerazione, anziché un immiserimento?
Macchiavelli, che non è propriamente San Francesco, usa il termine “occasione” per sottolineare che la politica, non solo quella dei partiti politici, ma anche l’agire politico di tutti noi, si produce efficacemente vedendo le occasioni e sfruttandole. La pandemia ha interrotto tutta una serie di cose producendo anche danni in serie, ha fermato dei processi su cui vivevamo ma, appunto come abbiamo visto, sono all’origine della stessa pandemia e hanno prodotto tanti guai. L’occasione che abbiamo è quella di sfruttare questo dolore, questa sofferenza non per immaginare di tornare a essere come eravamo prima, cosa impossibile, ma concretamente, faticosamente, rimboccandoci le maniche per avviare dei processi di cambiamento. I due driver di fondo, li ha indicati l’Unione Europea, che sono la digitalizzazione e la sostenibilità. Noi dobbiamo aggiungere che digitalizzazione e sostenibilità da sole non bastano, perché dobbiamo anche investire nella cura delle persone, nella cura dei territori e delle relazioni.
Come costruire davvero una società “resiliente”?
La resilienza non è solo la capacità di assorbire un colpo, un danno o un trauma, questo è un aspetto, ma è anche la capacità di rispondere a questo elemento traumatico in maniera trasformativa. La resilienza è una dinamica trasformativa. Come si fa? È una delle strade che possiamo seguire. Non si può essere resilienti, e ahimè lo stiamo vedendo, se non si investe nell’educazione, nella trasformazione delle persone. Tanti atteggiamenti negazionisti nascono dall’ignoranza. Bisogna investire nelle infrastrutture, quelle “Hard” e quelle “Soft”. Pensiamo a come ci siamo resi conto di quanti errori abbiamo commesso nel pensare a una Sanità che doveva girare come una macchina ben oliata senza alcun arresto, invece la Sanità non è un sistema di produzione, è un’altra cosa, è un sistema di cura. Dobbiamo intervenire per disinnescare le “bombe” che abbiamo davanti, in primis, la questione ambientale e la disuguaglianza sociale. Se prendiamo sul serio questa parola e non ci limitiamo a un’affermazione retorica, da lì derivano tutta una serie di indicazioni trasformative che ci dicono concretamente cosa vuol dire andare avanti e non andare all’indietro.