“Il lavoro ci ha rapito: dobbiamo riprenderci il tempo per ozio, preghiera, politica”

La società materialista nella quale viviamo, più o meno bene, considera il lavoro come la cosa più importante della nostra vita, quella che ci qualifica agli occhi degli altri. Perché oggi il lavoro è tutto e tutto è lavoro ed è “diventato incontrollabile e inesorabile, un flusso perenne che impedisce la quiete e il respiro”. 

Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel loro libro si domandano“Ma chi me lo fa fare?” (HarperCollins 2023, pp. 256, 18,50 euro), ovvero “Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”, come recita il sottotitolo del testo. I coniugi Colamedici e Gancitano, filosofi e scrittori, ideatori di Tlon, scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro, in questo illuminante saggio sollecitano il lettore a riflettere sulle origini e gli sviluppi di un concetto, quello di lavoro, sfaccettato e controverso, mettendone in luce i legami con ciò che abbiamo di più sacro, come la religione o la moralità. 

Oppressi, schiavi e nello stesso tempo rapiti e innamorati del lavoro, facendo a gara a chi lavora di più, ma un’alternativa c’è, e ce la rivela Andrea Colamedici nella nostra intervista.

Il libro mette in discussione il concetto che il lavoro sia un valore in sé. Ce ne vuole parlare? 

«Il lavoro non è un valore in sé come ci hanno fatto credere e come siamo stati spinti a pensare fin da quando eravamo bambini. Il lavoro può essere un valore grandissimo e può dare non solo grande soddisfazione ma può portare anche senso, però a patto che il lavoro sia dignitoso, che sia ben retribuito e non sovra estenda il proprio dominio in altri ambiti della vita che hanno bisogno di spazio: quelli dell’ozio, della preghiera e dell’azione politica».

Nel saggio parlate di “sindrome di Stoccolma aziendale”. A che cosa vi riferite? 

«Al fatto che sempre più spesso nelle aziende, in particolare nelle multinazionali, si tende a sentirsi rapiti dalla cosiddetta famiglia aziendale. Così come nella Sindrome di Stoccolma i rapiti instaurano un legame con i rapitori e non si accorgono della condizione che stanno subendo, allo stesso modo, tante persone che lavorano nelle grandi aziende vengono a tutti gli effetti rapite e spinte a parteggiare per i loro rapitori, perdendo diritti, voglia e tempo per prendersi cura di sé. Declinando così tutte le energie nei confronti del grande progetto, che non ha nessun ritorno nei loro confronti dal punto di vista né economico, né dal punto di vista della fioritura personale». 

È vero che in tanti non sopportano più il modo disumano con cui abbiamo declinato il lavoro nel mondo contemporaneo? 

«Sì, il lavoro può nobilitare l’uomo, ma solo se dignitoso, come ho detto prima. Abbiamo cominciato a pensare al lavoro come unica fonte del senso, e ciò è deleterio, perché abbiamo trasformato il lavoro in una religione, siamo devoti del lavoro. Questo ha reso le nostre vite perennemente dedite all’ottemperamento dei compiti lavorativi. Questo è perverso. Abbiamo perso il contatto con il divino e stabilito il contatto con la merce al posto del contatto con il divino. Siamo perennemente nell’ansia di dover manifestare il senso di esistere attraverso l’attività lavorativa, che però non offre nessuna salvezza né nel breve, né nel lungo periodo». 

Quando capiremo che la “Cultura della fretta”, come l’ha definita Zygmunt Bauman, è tossica, nuoce gravemente alla salute fisica e mentale? 

«Quando andremo a sbattere molto forte. Fino a quel momento faremo molta fatica, perché vediamo attorno a noi le persone sempre più indaffarate. Si chiama “consumo ostentativo opposizionale” quel consumo che continuiamo a fare per mostrarci indaffarati, perché dobbiamo farci vedere sempre presi da qualcosa. Un tempo, chi aveva potere lo dimostrava non facendo niente, mostrando agli altri quanto tempo libero avesse. Oggi, soprattutto chi ha il potere, ha il dovere di mostrarsi indaffarato, quindi di ottemperare al proprio dovere». 

Come è cambiato il lavoro dopo la pandemia? 

«È cambiato in peggio! Durante la pandemia abbiamo avuto l’illusione che potevamo liberarci da una certa frenesia lavorativa, e ridare libertà alle nostre giornate. In verità è come se avessimo avuto la percezione di aver perso un anno, siamo stati in aspettativa. Come siamo tornati alla normalità, ci siamo tutti iscritti a quelle scuole di recupero anni scolastici e ci siamo convinti di dover lavorare sempre di più. Quindi il lavoro è diventato ancora più pervasivo, più violento e lo smart working ha stravolto le nostre vite trasformando le nostre abitazioni in dependance dell’ufficio». 

Il lavoro per quello che è diventato oggi, è una trappola a cui dobbiamo a tutti i costi sottrarci, ma c’è un’alternativa? 

«Sì, la prima alternativa è ripensare il lavoro, cercare di astenersi da pratiche che ci portano a pensare che la nostra soddisfazione personale passi dal lavoro. Le alternative sono riprendersi il tempo dell’ozio, della preghiera, dell’azione politica, come dicevo prima, ripartendo dalle piccole comunità. Ripartendo dalla quiete. Non siamo naturalmente costretti alla produttività. A volte la dispersione del tempo consapevole, né al lavoro, né nell’intrattenimento dei social network è una delle più grandi salvezze. Lo diceva Walter Benjamin: “La noia profonda è un uccello incantato, che cova l’uovo dell’esperienza”. Se non ci riprendiamo il tempo per annoiarci, l’esperienza che abbiamo dentro, non la facciamo nascere mai. La noia non è un tempo vuoto, ma un terreno fertile». 

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