Gori 2.0

Il bello arriva adesso. Con le primarie di coalizione del centrosinistra a febbraio conosceremo le percentuali, cioè l’aritmetica politica, gli indici di gradimento e gli scarti umorali, ma già sin d’ora sappiamo che il candidato sindaco sarà Giorgio Gori, espressione del Pd, cioè del principale partito in città.

DA BERLUSCONI AL PD

Il manager arriva a questo snodo dopo un percorso non scontato, che ha lasciato sul terreno queste opinioni polifoniche: consenso, aspettative, critiche e diffidenze di cui non conosciamo ampiezza e profondità. Gori, new entry modernizzatrice di 53 anni, nell’immaginario collettivo è il nuovo e il diverso. Il nuovo, con l’aria che tira, è il valore aggiunto e il vantaggio competitivo. Il diverso è insieme un problema e un’opportunità, e qui la faccenda si complica. Per storia e stile personali, Gori non rientra nella casistica di chi, almeno nell’ultimo mezzo secolo, ha cercato di fare il sindaco di Bergamo. Non rientra neppure nel tipo umano del centrosinistra fin qui conosciuto: è l’inizio di una storia inedita, ancorché intrigante.
La sua radicale discontinuità è quindi duplice. Al di là di ogni opinione, il Pd giunge ad una svolta che è un punto di non ritorno. Non è un segreto che il vulnus sia l’origine professionale del candidato democrat, per 17 anni manager Fininvest, cioè delle tv di Berlusconi, con tutto l’indotto sul piano del costume che ne consegue al tempo della democrazia del pubblico e dell’audience. Constatazione inevitabile, divenuta pure nel frattempo critica antropologica tinteggiata di pregiudizio se non di invidia sociale. Per quanto questo dissenso, che mantiene una sua visibilità in un partito e in un elettorato pluralisti, sia stato ora assorbito in un laico realismo capace di distinguere fra il Gori di ieri e di oggi. Insomma, si è fatto di necessità di virtù e il primo a saperlo è l’interessato.

GORI E TENTORIO

Proviamo a ragionare a carte scoperte, cercando di spiegare il non detto, o comunque quello solo sussurrato. Il primo problema di Gori è convincere il centrosinistra che è «uno come voi» e non un corpo estraneo, che uno che piace al mondo che piace può nelle condizioni date essere votato dal tradizionale mondo della sinistra. Perché la traduzione politica dei rilievi nei confronti di Gori riguarda la sua capacità di essere percepito realmente alternativo a Franco Tentorio (se sarà ancora l’attuale sindaco candidato del centrodestra, come pare ormai certo). È vero che in linea teorica il manager è in grado di pescare nel bacino elettorale del centrodestra e di creare un’«entente cordiale» fra borghesia e ceti popolari (termini convenzionali, ma non sappiamo quanto attuali). Eppure il suo tratto di centrosinistra dovrà essere perfettamente riconoscibile rispetto a Tentorio, cioè ad un sindaco alla mano che probabilmente non soddisfa i palati raffinati ma che intercetta gli umori mediani della gente comune e che, pur essendo parte integrante del mondo berlusconiano, ha una sua diversità tremagliana e questo suo essere laterale al vecchio Pdl è percepito come tale. Detto in modo provocatorio: dei due, chi interpreta meglio l’anima popolare, la connessione sentimentale con il sentire collettivo, che è poi ciò che conta nell’urna? Il centrosinistra, a prescindere da Gori e non da oggi, ha sempre coltivato la presunzione che essere parte del sentimento dell’establishment bergamasco fosse e sia una rendita di posizione, peraltro senza farlo sapere troppo in giro: conti alla mano, ci permettiamo di dissentire, anche perché questo consociativismo non ha certo esaltato l’autonomia del politico rispetto all’economico. Anche su questo versante Gori avrà il coraggio di riscrivere le relazioni, di riaffermare il primato della politica in una distinzione di ruoli e funzioni tipicamente liberale e non soltanto liberale alle vongole?

L’APPRENDISTATO DEL CANDIDATO SINDACO

Non c’è dubbio che la candidatura del manager sia il risultato di circostanze maturate da sfavorevoli in favorevoli e da una determinazione soggettiva alla quale credevano in pochi. C’è uno spartiacque datato 8 febbraio 2012, quando in una intervista a «L’Eco di Bergamo» Gori 2.0 annuncia di voler fare politica e di studiare Bergamo. Renziano a modo suo (con il nuovo leader del Pd il gelo s’è formato da tempo), da allora ha fatto i compiti a casa con l’obiettivo di arrivare alla guida di Palafrizzoni: non ha perso un convegno o un incontro, non ha utilizzato la contundente rottamazione, con la sua associazione InNova Bergamo è intervenuto sullo scibile urbanistico, ha bussato a tutte le porte in alto e in basso per capire, conoscere e accreditarsi, ascoltando e prendendo appunti, ricevendo attenzione pure in ambienti insospettabili (come in alcune aree della Cgil, che storicamente fornisce la fanteria democrat) e anche alcuni no (a cominciare da qualche storico esponente del cattolicesimo democratico). Una sorta di apprendistato, consumato pancia a terra nella disponibilità di acquisire i fondamentali della politica amministrativa. Con il suo incedere movimentista, postideologico, neo ambientalista e neoliberale, tarato sull’urbanistica declinata al futuro (è laureato in architettura), ma – se non sbagliamo – ancora scoperto sul Welfare, uno dei fattori identitari della Bergamasca. Dunque, la prima questione aperta è fin dove si possono integrare Gori, la sua ipotetica squadra e il Pd e fin dove si può spingere il reciproco accompagnamento: se si crea, cioè, un circolo virtuoso fra il candidato e il partito. Il centrosinistra ha un precedente al quale rivolgersi per non ripetere i vecchi errori: quelli della Giunta di Guido Vicentini, nella seconda metà degli anni ’90, quando entrarono in rotta di collisione amministrazione e partiti di riferimento.

SMART CITY E WELFARE

Un’altra domanda: come mai si è arrivati a Gori dopo che il suo nome, almeno all’inizio dell’avventura, era un tabù per il centrosinistra? Da un lato il fattore Renzi, quando lo spostamento degli ex popolari da Bersani al sindaco di Firenze, ha fatto la differenza e dall’altro la sofferta rinuncia di Elena Carnevali, Lady Welfare, un passaggio parecchio delicato in cui la componente socialdemocratica del Pd non sembra aver giocato al meglio la partita. Il quadro è cambiato, mettendo in discussione il patto di sindacato fin qui consolidato fra ex popolari ed ex diessini, aprendo prospettive (ora condivise, ora subite per convenienza o per semplice realismo e in alcuni casi apertamente sfidate) a protagonisti tutti da scoprire come Gori. Viene in mente il Principe di Machiavelli, non quello del fine che giustifica i mezzi (frase mai scritta dal segretario fiorentino), ma quello del leader politico che deve il successo per metà alla fortuna (il contesto naturale in cui opera) e per metà alle virtù proprie. Una stagione dai nervi tesi per il Pd, che costringe questo partito a giocare un ruolo da reinventarsi attraverso coordinate concettuali differenti rispetto a quelle precedenti in una situazione in movimento e con variabili non sempre governabili. Che cosa vuol dire, per esempio, l’endorsement a tutto campo della Carnevali al manager, quel «io sarò a fianco di Gori»? Un accordo già siglato, una riedizione spartitoria, o un’intesa su un programma condiviso e articolato? E soprattutto, questione dirimente e politicamente strategica: Gori che interessi intende rappresentare e qual è la gerarchia dei valori che vuole mettere in campo? Noi sappiamo che con la Carnevali il centrosinistra sarebbe stato garantito sulla messa in sicurezza delle politiche sociali, mentre possiamo intuire che il format di Gori si esprima meglio nella smart city e dintorni. Il governo di una città è però il governo della complessità che sta sottopelle e non soltanto dell’estetica e dell’arredo urbani. In tempi di severità di bilanci pubblici, e quindi di minor consenso acquisibile, la scaletta delle opzioni diventa più rigida e selettiva e, ancora nel pieno di una recessione che non ha precedenti negli ultimi 70 anni, bisogna rendere riconoscibile chi, e come, si intende tutelare in nome della civiltà umanistica ancor prima delle leggi economiche delle business school. C’è, per esempio, la consapevolezza del corto circuito che si va creando fra inverno demografico, cioè fra denatalità, e crisi fiscale dello Stato sociale storico, per cui si avverte la necessità (sottostimata) di una nuova, radicale cultura per rifondare il Welfare comunale? E che la grande questione della Bergamasca da qui ai prossimi anni sarà proprio questa, l’economia della cura e degli anziani, in sostanza la tenuta della coesione sociale, ancor prima, o comunque in parallelo con il ridisegno urbanistico? Per il centrosinistra quella di Gori può essere una sfida incalzante, necessaria e innovativa, purché sia chiaro quanto spetta allo storico popolarismo interclassista e quanto alle posizioni neoliberali. Cultura nobile da rilanciare secondo le coordinate del nuovo contesto la prima, corredo intellettuale un po’ modaiolo ma meritevole di essere verificato il secondo nel tessuto connettivo della Bergamasca. L’onere della prova, politica a tutto tondo e non moralistica, spetta al candidato Gori.