Fuori dalla cella

Il carcere è per definizione un luogo di emarginazione. Ma non dev’essere per forza anche un luogo di abbandono: lo testimonia l’esperienza della parrocchia della Celadina. Un quartiere “di frontiera”, che adesso segna appena il passaggio con i paesi dell’hinterland, al confine con Seriate e Gorle: le vere periferie si sono spostate altrove.
Una comunità forte, capace di accoglienza: «Grazie a questo – spiega il parroco, don Mario Carminati – abbiamo potuto anche assumere il ruolo di “laboratorio” per offrire una seconda possibilità a persone che avevano sbagliato». Ai detenuti vengono offerte esperienze di lavoro e di servizio che costituiscono una strada per la riabilitazione, un modo per rimettere in carreggiata una vita “fuori dalle righe”.

Papa Francesco ha detto nei giorni scorsi, parlando dell’emergenza carceri «Anche Dio è carcerato, non rimane fuori dalla cella». E allo stesso modo questa parrocchia di periferia che confina con la casa circondariale un po’ si lascia coinvolgere, anche se, nota don Mario «per certi versi il carcere è invisibile, è un mondo a sé, c’è un muro che lo separa davvero dal quartiere, come se fosse un’isola».
Ma ci sono stati degli incontri: «Tempo fa è arrivata da noi una donna, una giovane madre. Veniva dalla Spagna e si era lasciata coinvolgere in un traffico di droga. Lo aveva fatto, ci aveva spiegato, perché costretta, per necessità. E anche noi avevamo capito, conoscendola, che non era tagliata per quella vita. Ci avevano chiesto di offrirle l’opportunità di un periodo di lavoro e noi l’abbiamo inserita come volontaria nelle attività della comunità. La gente l’ha accolta con gentilezza, senza pregiudizi, e si è instaurato un rapporto positivo, sono nate anche delle amicizie, tanto che alla fine del progetto di inserimento lavorativo questa signora ha espresso di continuare le attività come volontaria. Quando ha finito di scontare la pena, la comunità l’ha aiutata a tornare in Spagna».

Questi incontri «alla fine preziosi per tutti» come sottolinea il parroco, non sono l’unica occasione di incontro della comunità con il carcere: «Ci sono alcune suore delle Poverelle che vivono lì con le carcerate e poi partecipano alle celebrazioni della parrocchia, al consiglio pastorale e fanno parte del centro di primo ascolto». Proprio su impulso delle suore da qualche anno è stata creata una bella tradizione: «Le signore che organizzano i mercatini di Santa Lucia – spiega don Mario – riservano una parte della cifra raccolta per acquistare un piccolo dono per natale alle carcerate della sezione femminile. Sono piccole cose, un plaid o un pigiama, ma hanno un grande significato di attenzione per chi le riceve». Poi c’è il comitato carceri, del quale fa parte un rappresentante della parrocchia, che segue la gestione di un appartamento nel quale vengono ospitati temporaneamente gli ex detenuti.
Ci sono poi anche alcuni piccoli-grandi segni come la processione del Corpus Domini dell’anno scorso: «Siamo partiti dal teatro Creberg, che rappresenta il mondo della cultura e dello spettacolo, siamo passati dalla casa di riposo, il mondo della sofferenza, e poi per la prima volta abbiamo ottenuto il permesso di entrare in carcere: quasi mille persone sono passate sotto le finestre e i carcerati si affacciavano e ringraziavano. Il vescovo ha donato loro un pensiero, una preghiera e una benedizione. È stata un’occasione importante: così nasce tra la gente anche una particolare sensibilità, una capacità di comprendere e accogliere che non è così facile da trovare ai nostri tempi».

Celadina è per vocazione un quartiere cosmopolita: «Mi è capitato – racconta il parroco – di celebrare cinque battesimi con bambini di quattro continenti. Ma qui già negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano gli sfollati del Polesine e della ex Jugoslavia e immigrati da tutte le regioni d’Italia». Così la comunità diventa una specie di laboratorio dove si allena la capacità di vivere insieme conservando la propria “diversità”. Nel tempo questo sapiente lavoro di integrazione è riuscito a sconfiggere l’immagine del “Bronx di Bergamo” che molti avevano dato al quartiere, anche se, chiaramente, qualche criticità rimane. «Ci sono oltre duecento persone che ruotano intorno all’oratorio, milleduecento ogni domenica a Messa che diventano fino a duemila e cinquecento nei momenti forti. È cresciuto l’orgoglio di appartenere a questa comunità che viaggia. Certo, il lavoro da fare non manca».