Sei nella Bibbia

Elias Canetti ha espresso questa verità in un aforisma fulminante: «Anche se non la leggi, tu sei nella Bibbia». Detto diversamente: senza una serie di riferimenti espliciti o allusivi alle Scritture ebraiche e cristiane, noi non capiremmo non solo la pittura di Giotto e di Caravaggio, ma nemmeno quella di Rothko; non solo il Faust goethiano, ma neanche la trilogia di Matrix dei fratelli Wachowski (ricordate il protagonista, che nel finale del terzo episodio, dopo essere stato accecato come Sansone, si sacrifica per salvare la città di Zion? Il suo cognome, Anderson, sta per “Figlio dell’uomo”). E tuttavia, non varrebbe anche la pena di leggerla o di rileggerla, la Bibbia, anziché conservarne una vaga memoria, come “rumore di fondo” della nostra cultura religiosa e profana? Abbiamo intervistato su questo tema monsignor Patrizio Rota Scalabrini, docente di Esegesi presso il Seminario di Bergamo e la Facoltà teologica interregionale di Milano, oltre che membro del comitato promotore di Effettobibbia (la rassegna di cultura biblica la cui settima edizione è in corso di svolgimento, a Bergamo e in provincia, fino al prossimo 20 marzo).

«Sono nato il 10 agosto del 1951 –racconta monsignor Rota Scalabrini – e sono diventato prete il 4 settembre del 1976. Quattro anni prima avevo intrapreso lo studio della Bibbia, all’interno del ciclo istituzionale degli insegnamenti di Teologia. Devo dire che il mio amore per i testi biblici non è stato un coup de foudre; anzi, per un certo tempo ho continuato a privilegiare istintivamente la Fisica e la Matematica. È stato proprio lo studio che, progressivamente, mi ha fatto appassionare alle Scritture, fino a quando ho intuito la straordinarietà di questi testi: mentre tu li leggi, essi a loro volta “ti leggono”. Frequentando la Bibbia, gradualmente mi sono sentito rivelato a me stesso. Poi, ho sperimentato la possibilità di costruire nuovi rapporti di fraternità, partendo dalla Parola di Dio: rapporti interni alle comunità cattoliche, ma anche con i fratelli di altre confessioni cristiane e con tutti gli uomini – aggiungerei -, persino al di fuori di un esplicito discorso di fede: anche l’umanità del nostro tempo (magari, in modo inconsapevole) ha ereditato dalla Bibbia immagini e punti di riferimento».

Lei ha studiato in un periodo di grande sviluppo delle ricerche bibliche, nella Chiesa cattolica: il Concilio Vaticano II, con la Dei Verbum, aveva restituito alla Bibbia un ruolo centrale nella vita del popolo di Dio.
«Sì, in quegli anni vi era un grande fervore, anche se devo confessare che ho preso consapevolezza di questo solo in seguito. All’inizio, mi ero ritrovato a studiare sistematicamente le pagine bibliche perché in diocesi vi era la necessità che qualcuno si preparasse in quest’ambito, in modo da poter poi insegnare Esegesi in Seminario. Come accennavo poco fa, la vera passione è andata nascendo man mano che progredivo nella conoscenza dei testi. Solo a un certo punto – quando già ero divenuto prete e avevo iniziato a insegnare – alcuni libri biblici, che prima consideravo difficili o che sentivo lontani dalla mia sensibilità, mi hanno rivelato il loro “segreto”: penso, ad esempio, al Vangelo di Giovanni, o ad alcuni passaggi del Secondo Libro di Samuele».

Oggi è abbastanza diffusa un’obiezione di principio contro l’idea della Bibbia come “Parola di Dio”: perché Egli, per rivelarsi, avrebbe dovuto servirsi di 73 libri redatti in un linguaggio umano, con tutti i limiti e le imperfezioni dello stesso? Talvolta, questa osservazione è espressa anche in modo sarcastico: il “matematico impertinente” Piergiorgio Odifreddi, ad esempio, si fa beffe degli antropomorfismi e contraddizioni – vere o presunte – degli scritti biblici.
«A questa obiezione, risponderei che Dio ha voluto avvalersi delle possibilità limitate del linguaggio umano proprio perché ha deciso di rivelarsi nella storia. Nelle nostre vicende individuali e collettive, noi non ci imbattiamo in principi universali, privi di impurità, ma in volti, gesti e comportamenti concreti, particolari. A guidare la storia è appunto una logica del concreto, come vediamo anche nel caso dell’elezione del popolo d’Israele: l’amore di Dio, che ultimamente si porta su ogni uomo, deve tuttavia manifestarsi dapprima in una relazione particolare; solo così può pretendere di essere preso sul serio, anziché sfumare in una generica benevolenza a poco prezzo. Di fatto, noi non viviamo in piena luce, ma in un continuo chiaroscuro: ed è interessante, a me pare, che la Bibbia non taccia questo aspetto. Anche solo limitandoci all’Antico Testamento, riscontriamo subito che non si tratta di scritti encomiastici, volti a celebrare la vicenda di Israele».

Già Abramo, il “padre dei credenti”, non costituisce un modello di bon ton: assecondando la gelosia della moglie Sara, egli allontana Agar e il figlio che lei gli aveva dato, Ismaele…
«Ma anche in altri capitoli di Genesi Abramo non fa una grande figura: in due circostanze successive egli fa passare la moglie per sua sorella, in modo che i regnanti dei popoli presso i quali soggiorna non siano tentati di sbarazzarsi di lui, per potersi appunto unire a Sara. Così si avvia una serie di equivoci con il faraone, in Egitto, e con Abimèlech, nella terra di Gerar: per inciso, costoro, quando si accorgono del sotterfugio adottato da Abramo, si comportano assai più correttamente di lui, rinunciando alle loro pretese su Sara. L’errore del patriarca – capiamo – è quello di pensare che i popoli stranieri non abbiano alcun timore di Dio; eppure, gli era stato detto che, mediante lui, la benedizione di Yahweh si sarebbe portata su “tutte le famiglie della terra”».

In epoca recente, sono stati pubblicati diversi volumi dedicati alle pagine più “difficili” (sconcertanti, o perfino scandalose) della Bibbia. Dovendo citare un racconto biblico di questo tenore – in modo da mostrare anche come possono essere risolte le relative difficoltà -, quale sceglierebbe?
«Indubbiamente, una delle pagine più dure e inquietanti è quella relativa al sacrificio della figlia di Iefte, nel Libro dei Giudici. Figlio di una prostituta e rifiutato dai suoi fratelli, Iefte vuole finalmente riscattarsi, guidando il popolo d’Israele in battaglia contro i nemici ammoniti; tiene talmente alla vittoria che, rivolgendosi a Dio, fa un voto sconsiderato:  “Se darai nelle mie mani i figli d’Ammon – dice -, quando io ritornerò vincitore, chiunque per primo uscirà da casa mia per venirmi incontro, sarà del Signore e lo offrirò in olocausto”. Iefte ritorna vittorioso dalla guerra, appunto, e la prima persona ad andargli incontro, danzando con un tamburello per festeggiarlo, è la sua unica figlia. Quando il padre, sconvolto, le rivela il motivo del suo turbamento, la ragazza risponde che egli dovrà adempiere il suo impegno, e chiede solo che le sia concesso un rinvio: “Lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere con le mie compagne la mia verginità”».

Alla fine, la giovane – di cui non ci viene detto il nome – sarà immolata.
«Certo. Ora, l’autore del testo avrebbe potuto semplicemente commentare l’episodio con una formula del tipo: “Iefte, agendo così, fece ciò che era male agli occhi del Signore”; del resto, in altre pagine della Bibbia si esprime una decisa condanna della pratica dei sacrifici umani. Invece, in Giudici  11, 39 leggiamo soltanto che al termine dei due mesi la ragazza tornò dal padre, ed egli “fece di lei quello che aveva promesso con voto”. Al racconto si aggiunge solo una nota di commento, in cui si afferma che, da allora,  “ogni anno le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni”. Dunque, nella coscienza collettiva è rimasto il ricordo di una tragica confusione, che ha portato a scambiare il “Dio della vita” per un “idolo di morte”; e a questo pericolo-tentazione di fraintendere il senso del nostro rapporto con Dio (fino a immaginare di dover “acquistare la sua grazia” con il sacrificio di ciò che per noi è più prezioso) tutti noi siamo ancora esposti. Questo rischio è sempre presente, e non può essere superato con una battuta moraleggiante».

Lei dirige l’ufficio della diocesi di Bergamo per l’ecumenismo, ed è impegnato da molti anni in un dialogo cordiale con i membri di altre Chiese. Questo come si concilia con la sua qualifica di biblista? Intendiamo dire che proprio sulla questione delle diverse interpretazioni della Bibbia storicamente si sono accesi contrasti violenti tra i cristiani; a motivo della Bibbia si è litigato, si sono lanciati anatemi, si sono iniziate guerre di religione.
«Una lettura autentica della Bibbia porta a una conversione del cuore e, dunque, rafforza lo spirito di fraternità tra tutti i cristiani. I problemi non nascono dalle pagine della Scrittura ma, eventualmente, dalle modalità di lettura che si adottano: questo avviene, ad esempio, quando si pratica una lettura esclusivista, pretendendo che la propria interpretazione del testo ne esaurisca il significato, di modo che altri approcci risulterebbero superflui o automaticamente errati. Ovviamente, occorre anche disporre di conoscenze e strumenti interpretativi idonei a cogliere i significati di uno scritto, inquadrandolo nel genere letterario di appartenenza, nell’epoca in cui fu prodotto, e così via: altrimenti, si cade in una lettura ingenua, come avviene in diversi movimenti cristiani fondamentalisti. I motivi di divisione, anche in questo caso, sono nell’occhio di chi legge, e decisivo è il modo in cui si apre la Scrittura, per interrogarla».

Un’ultima domanda o, per meglio dire, la richiesta di un consiglio. Mettiamo che una persona – credente o non credente, ma “spiritualmente curiosa” – voglia accostarsi per la prima volta seriamente alla Bibbia. Per un principiante assoluto, da quali libri sarebbe meglio partire?
«Per quanto riguarda l’Antico Testamento, consiglierei a questa persona di partire dai “libri sapienziali”, e in particolare da testi come Qohelet e Giobbe, in cui ricorrono le grandi questioni di fondo relative all’esistenza umana. Poi, se al lettore sta particolarmente a cuore il tema della “giustizia”, potrà passare ai libri profetici, da Amos a Osea, da Isaia a Geremia. Per quanto attiene invece al Nuovo Testamento, solitamente si suggerisce di partire da Marco, dal “Vangelo del catecumeno”; io, però, ho l’impressione che il testo marciano sia così sintetico e denso da risultare difficile, per un lettore agli inizi. Da questo punto di vista, risulta forse più agevole leggere dapprima Luca, il “Vangelo degli affetti”, in cui risalta l’aspetto della tenerezza di Dio nei riguardi di tutti gli uomini».

Per saperne di più: sulla rassegna di cultura biblica che dal 2008 si tiene annualmente a Bergamo: www.effettobibbia.it ;
una riflessione di monsignor Patrizio Rota Scalabrini sulle “figure bibliche della fede”: