Dalla Papua Nuova Guinea. Pietro To Rot, primo beato, “martire per la famiglia”

Rimaniamo sempre nell’atmosfera del Sinodo sulla famiglia, di cui è appena terminata la prima fase. In questo contesto, mi sia permesso di farmi tramite di una sollecitazione da parte di mio fratello Francesco, Arcivescovo di Rabaul in Papua Nuova Guinea, per far conoscere anche da noi la figura del Beato Pietro To Rot, che, da laico cristiano convinto, ha tanto da insegnare alla Chiesa nell’affrontare le sfide che attualmente sono portate da più fronti alle famiglie cristiane.

Pietro To Rot era un catechista della diocesi di Rabaul in Papua Nuova Guinea, ucciso dai Giapponesi nel 1945 per essersi opposto alla persecuzione religiosa da parte degli occupanti nipponici, in particolare per aver lottato contro il sovvertimento della famiglia da essi programmato e attuato.
Nel 2012 ricorreva il primo centenario della sua nascita. In quello stesso anno, si ricorderà, a Milano ebbe luogo il VII Incontro mondiale delle famiglie e l’Arcivescovo di Rabaul, il bergamasco salesiano Mons. Francesco Panfilo, propose: «Perché non riscoprire questa figura di marito e padre modello, proprio anche in vista del grande Incontro di Milano?». (Oggi rilancia volentieri la domanda dopo la prima fase dello storico Sinodo dei Vescovi sulla famiglia e prima della sua conclusione che avrà luogo nel prossimo 2015).

Il nome di Pietro To Rot a noi dice poco o nulla, ma per la Chiesa della Papua è un’autentica gloria: è, infatti, il primo beato nativo di quella terra, elevato alla gloria degli altari, il 17 gennaio 1995 da Giovanni Paolo II. Non per niente, in occasione del primo centenario della nascita nel 2012 i vescovi della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone hanno compiuto un pellegrinaggio al santuario di Rakunai, paese natale del beato. E nell’estate delle stesso anno, esattamente il 7 luglio, festa liturgica del beato, hanno avuto luogo solenni festeggiamenti per il giubileo.

Pietro nacque da un capo tribù tra i primi convertiti alla fede cattolica. Dal padre, Angelo, il giovane Pietro ereditò le doti del leader, dalla mamma Maria – cristiana fervente – una sensibilità religiosa non comune. In queste caratteristiche, unite alla predisposizione per gli studi, ci fu chi vide altrettanti “segni di vocazione” al sacerdozio e immaginò di mandare il ragazzo a studiare in Europa. Ma il padre scelse per Pietro un futuro laicale: a soli 21 anni Pietro Torot era già un valido catechista e un prezioso collaboratore dei missionari. Nel 1936, a 24 anni, sposò Paula Varpit, una ragazza di 16 anni, anch’ella molto fervente.

«Ispirato dalla sua fede in Cristo, fu un marito devoto, un padre amoroso e un catechista impegnato, noto per la sua cordialità, la sua gentilezza e la sua compassione»: così nel 1995 papa Wojtyła parlò di Pietro To Rot, aggiungendo che egli «trattò sua moglie Paola con grande rispetto; pregava con lei ogni mattina e ogni sera. Per i suoi figli nutriva un profondo affetto e trascorreva con essi più tempo possibile». Ancora: il beato «aveva un’alta considerazione del matrimonio e, nonostante il grande rischio personale e l’opposizione, difese l’insegnamento della Chiesa sull’unità del matrimonio e sul bisogno di fedeltà reciproca».

Durante la seconda guerra mondiale, infatti, il suo villaggio, Rakunai, venne occupato dai giapponesi. I missionari finirono imprigionati, e Pietro si assunse la responsabilità della vita spirituale dei suoi concittadini, continuando a istruire i fedeli, a visitare i malati e a battezzare. Quando, però, le autorità occupanti legalizzarono la poligamia, il Beato Pietro denunciò fermamente tale pratica. Alla beatificazione, il 17 gennaio 1995, Giovanni Paolo II disse: «Egli proclamò coraggiosamente la verità circa la santità del matrimonio. Rifiutò di prendere la “via più facile” del compromesso morale e spiegava che doveva compiere il suo dovere come testimone nella Chiesa di Gesù Cristo. Non lo fermò il timore della sofferenza e della morte». Infatti, anche durante la prigionia Pietro rimase sereno, persino gioioso, arrivando fino ad incoraggiare la madre e la moglie che venivano a trovarlo in carcere e che con le loro lacrime rischiavano di indebolire la sua resistenza. Venne ucciso con un’iniezione da un medico giapponese il 7 luglio 1945.

Nelle celebrazioni del primo centenario della nascita, l’Arcivescovo mons. Panfilo definì Pietro To Rot «un grande difensore della famiglia e del sacramento del matrimonio» e propose alla diocesi di celebrare il centenario «puntando al rinnovamento della famiglia».

Come s’è detto, si augurava che il VII incontro mondiale delle famiglie, in programma a Milano, diventasse un’occasione per valorizzare questa figura. Fu ascoltato. Infatti, tra le varie immagini esposte a Milano, di santi e beati aventi speciali relazioni con la realtà e i problemi della famiglia, ci fu anche quella del giovane martire della Papua Nuova Guinea. E c’è da essere certi che a Rabaul hanno pregato tanto il loro beato anche per il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, la cui prima fase si è appena conclusa a Roma.

Per rispondere alla richiesta di Papa Francesco di trovare il modo di far fronte con sapienza e coraggio alle sfide che la Chiesa di oggi si trova a dover affrontare nel vasto e complessissimo tema della famiglia, la preghiera sarà sicuramente uno degli ingredienti più importanti. E in questo potrà tornare utile anche il chiedere l’intercessione di questo generoso giovane martire per la difesa della santità del matrimonio e della dignità della famiglia cristiana.
La testimonianza della fede e, nella fattispecie, l’impegno per la promozione e la difesa della famiglia cristiana, sono forse più difficili oggi di quanto non lo fossero al tempo dei martiri. Lo diceva bene S. Ilario nel sec. IV, al termine delle persecuzioni da parte dei Romani: «Combattiamo ora contro un persecutore insidioso, un nemico che non ci flagella la schiena, ma ci lusinga…ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (procurandoci così la vita), ma ci arricchisce (dandoci così la morte); non ci percuote i fianchi, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere…» (Liber contra Constantium 5).
Pare scritto per noi cristiani di oggi.