Tor Sapienza: una bomba sociale da disinnescare

Con le bombe, tecnologiche o di carta che siano, non si sono mai risolti i problemi, né nelle grandi guerre né in quelle piccole, tantomeno nei conflitti fra poveri. Come quello in corso nel quartiere di Tor Sapienza a Roma. Una borgata popolare, afflitta da varie forme di degrado sociale e ambientale, dove ha anche sede un Centro di prima accoglienza per immigrati e profughi, con una sessantina di ospiti. Da martedì scorso è iniziata una piccola “guerra” dai contorni confusi e complessi. Da una parte la protesta anti-immigrati di un gruppo di abitanti del quartiere, che accusano gli ospiti del Centro di aver commesso furti e altri reati nella zona. Protesta subito strumentalizzata da altri personaggi “equivoci”, che verosimilmente hanno anche organizzato e condotto tecnicamente gli assalti al Centro.
Si tratta con ogni probabilità di pusher della zona (che evidentemente non amano la presenza della polizia) e gruppetti eversivi di estrema destra, sempre pronti ad inforcare i loro caschi e menare le mani o, peggio, a lanciare bombe carta. Dall’altra parte gli immigrati, spaventati e in attesa di soluzioni per il loro futuro, con gli operatori e i volontari che li assistono, più spaventati di loro. E la politica? Anche quella, da un lato pronta a cavalcare i malumori della gente, esibendo capi-crociata improbabili e populisti, sempre pronti a soffiare sulla xenofobia; dall’altro lato, una politica “miope” che non riesce a programmare in modo sensato e responsabile un’azione di accoglienza ed integrazione sociale, finendo per innescare “bombe ad orologeria” destinate a scoppiare non appena una scintilla ne accende la miccia.
Come uscire da questa situazione? Innanzitutto, per evitare immediati disastri maggiori, è urgente abbassare i toni, da parte di tutti. È il momento della riflessione e dell’azione, non degli urli e delle violenze. Ai reali disagi degli abitanti di Tor Sapienza occorre rispondere con un’efficace azione politica programmata e concordata (anche con i loro rappresentanti), non certo con pericolosi aizzamenti demagogici. Allo stesso modo, la giusta accoglienza degli immigrati e dei profughi, per essere autentica, richiede un’intensa azione di integrazione sociale e culturale, non la mera creazione di ghetti, per di più in zone già gravemente disagiate.
Insomma, chi ha responsabilità in merito se ne assuma l’onere e la eserciti sapientemente, spegnendo così la miccia delle tante “bombe” ancora innescate a minaccia della pace sociale, anche a Tor Sapienza.

«NON RAZZISMO MA STANCHEZZA PER TROPPI MALESSERI»

«Riguardo all’episodio di Tor Sapienza, non parlerei di manifestazioni di razzismo ma di stanchezza nata dall’accumulo di situazioni di malessere che vanno avanti da anni: disagio, degrado delle periferie, assenza di lavoro, politiche della casa e del territorio dimenticate per anni, hanno creato un mix esplosivo che può essere compreso». Lo ha detto oggi a Roma Domenico Manzione, sottosegretario al Ministero dell’interno, aprendo la presentazione del Rapporto sulla protezione internazionale in Italia. Secondo Manzione «di fronte ad una protesta del tutto legittima lo Stato non poteva mostrare i muscoli»: «Quest’estate ci siamo dotati di un piano strutturale di accoglienza per riportare un equilibrio, perché c’è uno squilibrio di distribuzione territoriale, visto che solo la Sicilia accoglie il 35% delle persone sbarcate». A proposito dei 30 euro al giorno destinati all’accoglienza di ogni migrante, ha ricordato che «quei soldi non vanno alla singola persona ma ai centri che gestiscono i servizi, per cui danno lavoro agli italiani».
In Italia fino alla fine anno si stimano 170mila arrivi, è stato detto durante il convegno, anche se «quando si va nei Paesi ai confini con la Siria i nostri numeri, seppur in aumento, impallidiscono – ha precisato Manzione, auspicando – che in Europa non siano solo cinque Stati a fare accoglienza ma tutti gli Stati». A proposito dell’operazione «Triton» nel Mediterraneo che lavora sotto l’egida di Frontex, agenzia preposta a controllare i confini dell’Europa, ha detto che nonostante ciò «il soccorso in mare è previsto dalle leggi internazionali per cui lo farà lo stesso insieme alle nostre capitanerie di porto». Sugli scontri a Tor Sapienza si è espresso anche Laurent Jolles, rappresentante Unhcr per il Sud Europa: «Moltissime persone hanno usato i rifugiati come capro espiatorio ma è un fatto preoccupante perché non sono loro il vero problema. Questo dimostra quanto sia importante una accoglienza che diventi integrazione e dialogo». A suo avviso è anche fondamentale «togliere l’opportunità ai gruppi estremisti di cavalcare la rabbia dei cittadini per altri fini». 

I RIFUGIATI: SIAMO QUI PER SALVARCI LA VITA E COSTRUIRCI UN FUTURO

«Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno veramente ci conosce. Noi siamo un gruppo di rifugiati, 35 persone provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania… Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite».
Inizia così la lettera aperta resa nota oggi dai rifugiati del Centro Morandi di Tor Sapienza. «Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti per fare male» ad alcuno, chiariscono i rifugiati, che si rammaricano per quello che viene affermato. «In questi giorni abbiamo sentito dire molte cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né tantomeno per scontrarci con gli italiani».
Agli italiani, scrivono i rifugiati: «Siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato la nostra stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti insieme e non divisi». Ma, aggiungono, «è da tre giorni che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco». «Siamo tornati da scuola e ci siamo sentiti dire ‘negri di merda’».
«Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro».
«Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci – affermano i rifugiati -. Sappiamo bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei nostri Paesi, che la violenza genera solo altra violenza». Poi una richiesta: «Vogliamo anche sapere chi è che ha la responsabilità di difenderci? Il Comune di Roma, le autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo che la polizia arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno di noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile?». In realtà, spiegano i rifugiati, «non vogliamo continuare con la divisione tra italiani e stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni siano un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza e in libertà». Per questo motivo, concludono, «non vorremmo andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che avevamo».