Il marito della mia amica si è suicidato

Cara suor Chiara, ho incontrato, nei giorni scorsi, una mia amica che, anni fa, ha perso il marito che si è suicidato. Le ho ricordato che il marito era esaurito, che lei, la moglie, aveva fatto tutto il possibile, che non doveva rimproverarsi niente. Ma lei, con una inflessibile ostinatezza, continua a rimproverarsi tutto. E così si trascina con addosso un senso di colpa inestirpabile. Ho cercato di dirle qualcosa, ma non serve, è come sbattere la testa contro un muro. Tu, a volte, puoi darmi qualche suggerimento? Grazie. Silvia

Credo che la situazione descritta sia più complessa di quanto possiamo immaginare, cara Silvia! Sono diversi i fattori che rendono difficile e faticosa la rielaborazione di lutti come questi.

UN VISSUTO DI “CARNE E SANGUE”

Vi è, infatti, un vissuto di “carne e sangue” con le sue leggi, faticose da accompagnare e da chiarire poiché il cuore, gli affetti, le gioie e le fatiche, le ansie, le speranze custodite ed alimentate non si possono più cancellare ne rimuovere.

È doloroso accettare un lutto, ma rielaborarlo alla luce della fede e della speranza, dona sollievo; in casi come questi, invece, tutto è davvero “crocifiggente”. È necessario, perciò, da parte di quanti sono vicini a coloro che vivono questi drammi, molta comprensione, silenzio, prossimità cordiale e rispettosa.

Solo Dio conosce la “cruda” sofferenza di un coniuge che si trova di fronte al gesto estremo del proprio partner; solo Lui vede, con lucidità, le dinamiche “inconsce” che scattano nel profondo del cuore allo scopo di trovare un’adeguata difesa da un dolore troppo grande da sopportare. A Dio non sfuggono i particolari di una ferita troppo difficile da coscientizzare e da condividere; la pena vissuta è, infatti, lacerante e i numerosi interrogativi che sorgono nell’animo sembrano non trovare una adeguata risposta: “Dove ho sbagliato? …Cosa potevo fare di più di ciò che ho fatto? …Se solo me ne avesse parlato! …Se non lo avessi lasciato solo in quella particolare circostanza! …Era davvero malato? …Non sono stata capace, forse, di comprenderlo?” ecc.

Si cercano, allora, risposte che, però, tendono a confermare il senso di colpa già in sordina, e così la condanna è immediata e inestirpabile: dubbi, rimorsi, sensi di colpa troppo severi trascinano in un vortice senza via di uscita, lasciando nell’impotenza e nella disperazione.

Non è facile per accettare tali vicende dolorose, superando i pesanti rimpianti o le auto accuse che, nel nascondimento del cuore, tentano di rivendicare una sorta di “giustizia” ormai preclusa per sempre!

MOLTA PAZIENZA E MOLTA VICINANZA

Cosa fare allora? Non credo ci siano molte strade da percorrere!

La persona che vive dentro di se sofferenze come queste raramente tollera discorsi e consigli pronunciati, a volte, con troppa leggerezza, superficialità, poca comprensione, oppure con eccessivo zelo allo scopo di cambiare la testa e il cuore altrui. È necessaria, allora, molta, molta pazienza condita da una buona dose di comprensione e di benevolenza: quando un cuore afflitto percepisce attorno a sé amore, rispetto e umanità può aprirsi e accettare che l’inflessibile ostinatezza venga scardinata. Se è possibile e con le dovute maniere, per non rischiare di ottenere l’effetto contrario, si può anche i consigliare l’intervento di persone competenti che aiutino la persona a rileggere e rielaborare quanto ha vissuto.

E poi, non da ultimo, ricorriamo al ricordo orante nella preghiera, certi che “qualunque cosa chiederete nel mio nome il Padre ve la concederà” (cfr Gv 14, 13-14).