Non basta la piazza. Serve più politica. Family day e dintorni

Nei prossimi giorni una parte consistente del variegato e plurale mondo cattolico scenderà in piazza a Roma per esprimere il proprio dissenso nei confronti del disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili e sulla “stepchild adoption”. Non è la prima volta (vale la pena ricordare che nel 2007, al tempo del secondo Governo Prodi, Matteo Renzi partecipava al Family Day ideato e organizzato dal cardinal Ruini allo scoppo di affossare i modesti “Dico”) né, immagino, l’ultima.

Fermo restando l’assoluto diritto di parola e opinione nel dibattito pubblico italiano, credo necessaria evitare una deriva retorica su questioni importanti per la pace sociale. Lo ricordava, con lucidità, Carlo Maria Martini in un discorso di sant’Ambrogio nel lontano 1996: “Non basta – avvertiva il cardinale – limitarsi a proclamare i cosiddetti ‘valori non negoziabili’ ed esigere che la legislazione li promuova, se non ci si fa carico di una ricerca paziente di soluzioni pratiche che tengano conto anche di chi ha concezioni diverse”, se non si cercano strade politiche condivise. “Questo della mediazione antropologico-etica” – precisava – è forse uno dei lavori più importanti e urgenti per i cristiani impegnati in politica, ed è uno dei contributi più fecondi che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi”; i principi della fede, lungi dal trasformarsi in motivo di conflitto e di contrapposizione all’interno della convivenza civile, “devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior consenso e concordia possibili”. Insomma, compito dei cattolici impegnati nella costruzione della città di tutti è di trovare il modo di mediare “laicamente” i valori nella società secolarizzata e pluralistica di oggi. Insomma: non basta la piazza, serve più politica. E’ sotto gli occhi di tutti la diserzione quasi assoluta dei cristiani dai luoghi di costruzione politica della città. Salvo poi lamentarsi e riempire le piazze.

ALCUNI PUNTI FERMI

Come ha ricordato recentemente Guido Formigoni, docente di Storia Contemporanea alla IULM di Milano, dobbiamo ribadire che l’acquisizione del riconoscimento giuridico delle unioni civili tra le persone dello stesso sesso (fondato sull’art. 2 della costituzione, dove si parla del riconoscimento dei diritti della persona in tutte le “formazioni sociali” che la caratterizzano) è “un gesto di civiltà assolutamente necessario, che è bene sia solennizzato in termini pubblici e non ricondotto – come qualcuno continua a chiedere – al mondo oscuro e diseguale del contrattualismo privato, che per definizione è gestito diversamente da chi è ricco rispetto a tutti gli altri. La Repubblica riconosce e tutela la relazione come valore, al di là di ogni individualismo.”
Al tempo stesso, credo sia importante e necessario continuare a distinguere queste formazioni giuridiche dalla “famiglia fondata sul matrimonio”, che ha oggettive diversità di finalità e di struttura (in particolare per l’apertura alla procreazione, come l’etimologia della parola implica), e quindi anche di tutele giuridiche. “Far parti uguali tra diseguali”, come si esprimeva don Milani, resta una grande ingiustizia in nome di una presunta parificazione assoluta. Anche il linguaggio a questo proposito conta moltissimo. Per cui le posizioni di alcuni esponenti dell’ala radicale del Pd, che esultano perché questo testo apre ormai la strada al “matrimonio gay” sono incomprensibili. Nella sostanza e nella opportunità politica. Infatti, non possono che rafforzare speculari allarmi, anch’essi da rigettare, dei cattolici più retrivi o dei residui teocon nostrani, che già figurano valanghe di effetti negativi. La tesi per cui in ogni passo avanti della legislazione si vede un rischio di future slavine è forse propagandisticamente comprensibile, ma sostanzialmente e storicamente piuttosto assurda: quasi che non si fosse ancora capito che, se nel 2007 si fossero approvati i tanto osteggiati Dico, il dibattito oggi sarebbe su linee ben diverse.
Anche sul grande polverone alzato sul tema delle adozioni è utile ricordare quanto scritto da Guido Formigoni: “il disegno di legge parla solo dell’adozione incrociata da parte del partner di chi è già figlio (naturale o adottivo) dell’altro partner (la cosiddetta stepchild adoption, così presentata nel gergo condizionato dal solito anglismo d’accatto dei media). Non si vede perché questa pratica dovrebbe poi automaticamente estendersi ad altre forme di adozione. O perché dovrebbe divenire addirittura un «grimaldello per l’utero in affitto» (Sacconi): tale eventualità è infatti regolata da altre leggi, come la discussa ma ancora in vigore legge 40 sulla fecondazione assistita.” E comunque, non dimentichiamo che, quando si parla di adozioni, il punto di vista essenziale dovrebbe essere quello dei diritti del minore in questione, mai quello dell’adottante (coppia di fatto, unione civile o coppia sposata che sia).

NON BASTANO LE BUONE INTENZIONI

Insomma, va bene Piazza San Giovanni. Ma le buone intenzioni da solo non bastano. Come non basta limitarsi a proclamare valori e istituzioni come se magicamente si potessero affermare. Occorre, piuttosto, sostanziarli, sotto il segno della competenza e della laicità. Meno prediche e più politica. Magari anche più testimonianza. Come ha recentemente scritto Magatti sul Corriere: “tra i difensori della famiglia tradizionale e i suoi detrattori c’ è un grande spazio per chi pensa che la famiglia potrà avere ancora moltissimo da dire se saprà rinnovarsi, includendo elementi che la cultura ha nel corso degli anni acquisito. La famiglia migliore dobbiamo ancora vederla.”