I bergamaschi di Terraferma clown nei campi profughi in Grecia: “Migliaia di persone nel limbo, e tanta sofferenza”

Sono passate ormai più di due settimane dallo sgombero del campo di Idomeni, il punto di confine della Grecia dalla Macedonia, dove più di 10 mila persone si sono accampate da febbraio di quest’anno. I media sembrano essersi dimenticate di quelle persone, ma non chi di lì è passato. E’ proprio nel campo di Idomeni – tra gli altri -, dove infatti hanno cercato di portare qualche sorriso ai bambini e alle famiglie in difficoltà, i volontari dell’associazione “Terraferma clown”, con sede legale a Bergamo ma i cui soci sono sparsi in tutta Italia. E’ Gabriela Calabrò, presidente della stessa, a raccontarci la loro esperienza: “Come in tutte le nostre Missioni, non abbiamo fatto foto durante i nostri interventi, ma abbiamo documentato la situazione disumana di queste persone. Durante i nostri interventi clown vogliamo essere al 100 % con le persone che incontriamo, vogliamo rispettare la loro Dignità ed è per questo che abbiamo scelto di non fare foto, a meno che siano loro a chiederle. Molti infatti si vergognano e altri hanno paura di essere esposti e riconosciuti”. Da Bergamo si sono imbarcati per Salonicco, e poco prima hanno incontrato una signora che vive ad Atene: “Mentre ci parlava della drammatica situazione si è messa a piangere addolorata e nei suoi occhi abbiamo visto la grande Umanità del popolo greco”. Arrivati a Salonicco, i volontari si sono messi in cammino per incontrare le persone che erano nel campo governativo di Diavata, dove si trovavano più di 2000 persone: “Siamo riusciti ad entrare grazie ai volontari che hanno accolto la nostra intenzione di costruire ponti di Amore e Cura. I bambini appena ci hanno visto arrivare ci hanno circondati e presi per mano; una mamma ci ha portato nella sua tenda per farci conoscere la sua bellissima famiglia e per raccontarci la loro storia e le loro Speranze, in quella tenda spoglia di tutto dove si respirava tanto Amore. Poi una nonna che piangeva perché da quando è arrivata nel campo ha perso la vista e un ragazzo che, dopo di averla accarezzata e baciata, mi ha detto di non preoccuparmi perché nel campo tutti si prendono cura di tutti perché sono una grande famiglia; due genitori il cui figlio è su una carrozzina per colpa di una bomba, preoccupati per il suo futuro. Un bicchiere di tè condiviso con una generosità sconvolgente; un ballo di gruppo con i bambini che sorridevano spensierati. Gli abbracci profondi in cui senti il cuore dell’altro battere insieme al tuo; i bambini che non volevano lasciarci andare mentre ci chiedevano di tornare il giorno dopo. L’Umanità dei volontari e la tristezza di dover andare via, mista al senso di impotenza per non poter fare di più. Queste persone ci hanno accolto a cuore aperto: con loro abbiamo condiviso momenti molto intensi, in cui abbiamo sorriso insieme e in cui abbiamo pianto insieme”. Il giorno seguente si sono messi in cammino per incontrare le persone che erano nel campo governativo di Giannitsa, in cui vivono più di 700 persone e anche lì sono riusciti ad entrare grazie alle volontarie che li hanno messi in contatto con l’ufficiale che gestisce il campo, che ha accolto con grande entusiasmo la loro visita: “c’era un grande tendone in cui abbiamo potuto giocare a lungo con i bambini e fare piccoli spettacoli di giocoleria, magia e burattini. Non posso spiegare l’emozione profonda di camminare tutti insieme mano nella mano, cantando a squarciagola “I’m happy lalalala”, i sorrisi dei genitori vedendo sorridere i loro figli; le mamme, che mentre i bambini erano con noi, pulivano con grande dignità le loro tende e lavavano a mano i vestiti; i papà che accendevano i fuochi per cucinare, le carezze delle nonne. I bambini che quando smettevamo di cantare ci guardavano e ricominciavano a cantare “I’m happy lalalala” invitandoci a non smettere più di farlo e che prima di andare via ci hanno abbracciato dicendo “I love you my friend”. Da lì i volontari sono andati poi nel campo di Alexandreia, con più di 700 persone, dove sono riusciti a fare giochi e piccoli spettacolini di giocoleria e magia con i bambini”. Il giorno seguente hanno provato ad entrare nel campo governativo di Nea Kavala, dove vivono più di 4000 persone, ma i militari non hanno dato loro l’autorizzazione e allora sono andati al campo libero che c’è nell’EKO di Polykastro, sgomberato in questi giorni, dove vivevano più di 3000 persone: “Abbiamo fatto un giro tra chi era sul prato di fronte alla stazione. I loro racconti pieni di disperazione sono stati veri e propri colpi all’anima: mamme che erano lì da mesi con i loro figli, nell’attesa di poter raggiungere i loro cari nel nord di Europa, che ci chiedevano se sapevamo quando riapriranno la frontiera con la Macedonia, che ci facevano vedere i loro vestiti bagnati e sporchi e ci dicevano con le lacrime agli occhi che non si facevano una doccia da giorni perché non potevano pagare, che ci pregavano di portarli via con noi.
Nel campo c’era una cara Amica italiana a cui abbiamo consegnato una parte delle donazioni ricevute prima della partenza. Senza dimenticare la signora che gestisce la stazione di servizio, che quando siamo andati a ringraziarla per la sua Umanità si è commossa e ci ha regalato un pensiero pieno di affetto per ognuno di noi. Prima di andare via mi sono allontanata insieme ad uno dei miei compagni per prendere una rosa di stoffa da lasciarle e sono scoppiata a piangere: tutta quella sofferenza era troppo, il senso di impotenza e di ingiustizia era troppo pesante”. L’ultima parte del viaggio si è svolta proprio a Idomeni: “Vedere dal vivo questo campo è devastante: migliaia di persone bloccate in questa specie di limbo nell’attesa che riaprano la frontiera con la Macedonia; esseri umani che portano nella pelle e nell’anima ferite profonde che continuano a sanguinare perché davanti a loro vedono solo muri di filo spinato, il tutto alle porte di casa nostra. In questo campo, come in tutti gli altri che abbiamo visitato, abbiamo trovato migliaia di persone che sopravvivono in condizioni di vita drammatiche, ma abbiamo anche trovato la vera Umanità, quella delle persone che ti accolgono come uno di famiglia per condividere con te quel poco che hanno, quella dei volontari a fianco dei Fratelli migranti per tentare di migliorare la loro qualità di vita. Nell’aria si respirava la vera Fratellanza, quella in cui ogni uomo si riconosce nell’altro e tutti si sentono parte della stessa famiglia”. Un altro incontro che ha lasciato il segno, quello con la signora Panagiota Vasileiadou, 82 anni, che ha aperto la sua casa per aiutare le persone: “Una nonna che ha accolto centinaia di profughi e ha donato loro cibo, vestiti e quel poco che può comprare con una pensione che è l’equivalente di circa 450 dollari al mese per farli sentire in famiglia. Lei sa molto bene cosa vuol dire rimanere senza niente: è figlia di profughi e ha perso tutto durante la seconda guerra mondiale. Sebbene non ci siano lingue in comune tra lei e le persone che incontra e ospita, poiché parla solo il greco, la comunicazione funziona ugualmente. I gesti e gli abbracci fanno molto più delle parole, sono il cuore del linguaggio universale della Solidarietà, che non conosce confini”. E prosegue: “Arrivati al muro della vergogna siamo andati ad attaccare al filo spinato gli uccellini di carta che avevamo portato, che rappresentano tutte le persone che sono bloccate nella loro Libertà di movimento. Ho lasciato anche la mia bandiera della Pace e prima di tornare in dietro ho guardato a lungo il muro chiedendomi mille volte perché? Mi sono allontanata senza risposte. Mentre tornavamo dove c’erano gli altri compagni di viaggio, ci siamo fermati a parlare con le persone che erano nelle tende attaccate alle reti che c’erano di fianco ai binari. Tra di loro c’era una famiglia siriana con una bambina appena nata e un’altrache aveva meno di 2 anni. La mamma ci ha detto che aveva la febbre e noi le abbiamo consigliato di farla vedere dai dottori presenti nel campo. Il papà e suo fratello ci hanno detto che al giorno seguente tutta la famiglia sarebbe tornata in Siria perché non avevano più soldi e perché non potevano andare avanti a vivere in quelle condizioni disumane. Persone che hanno dovuto lasciare la loro amata terra perché a casa loro c’è la guerra, rischiando la loro vita nel viaggio per raggiungere un posto sicuro dove poter ricostruirsi una vita, dove poter vivere in Pace, ora tornano indietro perché non siamo stati capaci di essere rifugio per loro”. E sullo smantellamento dei campi, Roberta Bianchini, in arte Machilé, altra volontaria, aggiunge: “Avrei voluto accogliere lo smantellamento dei campi spontanei con gioia, avrei voluto poter festeggiare la ripresa del viaggio di migliaia di persone e invece il limbo è solo stato trasferito, dove si vede meno. Noi però siamo clown e nella speranza ci crediamo, ostinatamente. Basta guardarsi attorno per scoprire che non siamo i soli e ritrovare la forza. Là fuori c’è una meravigliosa rete di volontari che non si arrendono e che prontamente si adattano ad ogni nuova situazione ed esigenza. Continuiamo perciò a sognare e cerchiamo di donare qualche istante di spensieratezza a chi sta vivendo in un incubo. Noi non portiamo aiuti concreti, se non marginalmente, ma troviamo che sia altrettanto importante riuscire, anche solo per pochi momenti, a far sentire accolte le persone che incontriamo e soprattutto farle sentire trattate come esseri umani”.