Chiesa e social network: “Nel mondo digitale si può testimoniare anche con lo stile”

«Chiesa e comunicazione non vanno sempre molto d’accordo. Noi cattolici tendiamo a prenderci troppo sul serio. Ci vorrebbe una riforma radicale del nostro approccio sulla scia del rinnovamento che Papa Francesco sta imprimendo alla Chiesa». Così Fabio Colagrande, giornalista di Radio Vaticana e blogger, in questi giorni al Sinodo dei vescovi, pensa al futuro dell’informazione cattolica soprattutto nell’ambiente digitale, «dove un tocco d’ironia non guasta». Lo spiegherà nel suo intervento all’incontro promosso dal nostro settimanale online Santalessandro.org in collaborazione con L’Eco di Bergamo e con il Meeting nazionale dei giornalisti cattolici per il 20 ottobre su “Chiesa 3.0: comunicazione e identità digitali. Questioni di linguaggio, stile e coerenza comunicativa”. Appuntamento in Sala Piatti a partire dalle 9, ingresso libero, gradita la registrazione online (link sul sito www.santalessandro.org). In occasione del quinto compleanno del settimanale on line si parlerà di come comunica la Chiesa nel mondo digitale e delle regole che possono orientare l’informazione nel mare magnum di Internet e soprattutto nell’ambiente dei social network.

Che spazio c’è per l’umorismo e l’ironia nell’ambito della comunicazione della Chiesa?

«Dopo più di due decenni di lavoro nell’ambito del giornalismo cattolico sono giunto alla conclusione che Chiesa e comunicazione non vadano molto d’accordo. C’è davvero bisogno di una riforma radicale del nostro approccio come comunicatori cattolici sulla scia del rinnovamento missionario che Papa Francesco sta imprimendo al cammino ecclesiale. A me, personalmente, pare che il sintomo più chiaro del clericalismo, dell’autoreferenzialità e della rigidità che caratterizzano spesso il nostro modo di comunicare, sia l’incapacità di noi cattolici di ridere di noi stessi e più in generale la tendenza a prenderci troppo sul serio. Sono partito da questa intuizione e ho provato a verificarne la solidità, scoprendo con molta sorpresa che anche Dio ha il senso dell’umorismo, che i mistici celano una vena umoristica e la Chiesa non ha ragioni per temere il riso. Ho scoperto che, ormai da tempo, i Papi ci invitano a praticare affabilità, leggerezza, umorismo e autoironia e mi pare chiaro quindi, che dobbiamo interrogarci sulla nostra incapacità di praticare questa virtù in ambito comunicativo. D’altra parte mi pare lo strumento più efficace anche contro il dilagare delle contrapposizioni sterili sui social».

Quanto è incisiva la presenza della Chiesa nei social network considerato che è sempre molto attivo l’account ufficiale di Papa Francesco su Twitter, @Pontifex?

«L’account Twitter del Papa – @Pontifex – aperto da Benedetto XVI il 3 dicembre del 2012 conta oggi oltre 47 milioni di follower in 9 lingue. Se si conferma il trend di questi ultimi mesi, l’account di Papa Francesco dovrebbe raggiungere i 50 milioni di follower entro la fine del 2018. L’account su Instagram – @Franciscus – aperto da Papa Francesco il 19 marzo del 2016, conta 5,6 milioni di follower. Sono cifre che ripagano il grande sforzo che la comunicazione vaticana ha compiuto negli ultimi anni, per far sì che il Pontefice sia presente in quei luoghi di relazione così frequentati quali i social network. Ma sono anche un segno di come pastori di ogni ordine e grado, religiosi, religiose e laici siano chiamati a essere sempre più presenti sui social. L’importante è che però la nostra sia una presenza umanizzante: dobbiamo testimoniare con lo stile prima che con i contenuti».

In Rete li chiamano “haters” cioè “odiatori”, uomini e donne di ogni estrazione sociale che stanno trasformando i social network in un luogo di odio più che di libero scambio di molteplici idee. Emblematico in tal senso il personaggio di NAPALM 51 presentato da Maurizio Crozza alcuni anni fa nel programma televisivo di La7 “Crozza nel paese delle meraviglie”. Da dove nasce tutto quest’odio online?

«Non credo che i social provochino odio, semplicemente aumentano a dismisura le possibilità di relazioni e comunicazione e quindi permettono anche di sfogare i sentimenti negativi che ognuno di noi, prima o poi, per stanchezza o frustrazione, può provare nella vita. Rovesciando il discorso si potrebbe dire che questa esplosione di odio online è un’opportunità e una sfida aperta per chi – cattolico o no – crede davvero nella fraternità. Autodisciplina, intelligenza, pazienza e autoironia, sono ingredienti che permettono di trasformare il web in un luogo arricchente, dialogando con tutti, anche con Napalm 51, ne sono convinto».

Quali dovrebbero essere le regole di convivenza sui social network e non solo?

«Esistono già manuali molto ben fatti che ci insegnano a condividere informazioni e immagini, postare contributi e commentare quelli altrui, con buon senso e intelligenza. Su tutti, consiglio vivamente il recente “Tienilo acceso”, di Vera Gheno e Bruno Mastroianni. Una cosa che ho imparato leggendolo – è che secondo me è la regola d’oro per vivere e convivere bene nei social – è “concedersi il lusso del tempo”. La comunicazione digitale, per la sua immediatezza, ci spinge a velocizzare le nostre vite e quindi i nostri rapporti con gli altri. È un errore gravissimo. La rapidità genera spesso superficialità, ignoranza, errori, fraintendimenti equivoci e tanto stress. Dobbiamo, secondo me, spiritualizzare le nostre vite in rete: concedendoci il gusto di leggere con calma e per intero un testo. Diminuire la frequenza dei nostri interventi: scrivere più raramente, ponderando i nostri testi parola per parola. E intervallare il tutto con giusti spazi di silenzio. Ecco, dobbiamo riscoprire le pause di silenzio per ritrovare il gusto di stare online».

In quest’ottica qual è l’etica e quali sono i doveri di un giornalista nella comunicazione digitale?

«Papa Francesco, nel 2016, in un discorso all’Ordine dei giornalisti, li ha riassunti così. Primo: “Amare la verità”, quindi non solo affermare, ma vivere la verità e testimoniarla con il proprio lavoro. “Arrivare il più vicino possibile alla verità dei fatti e non dire o scrivere mai una cosa che si sa, in coscienza, non essere vera”. Secondo: “Vivere con professionalità” e quindi “non sottomettere la propria professione alle logiche degli interessi di parte, siano essi economici o politici”. E terzo: “Rispettare la dignità umana: ricordarsi del terrorismo, delle chiacchiere e di come si può uccidere una persona con la lingua”. Sono regole valide per la tv, la radio, la carta stampata e ovviamente il web. Qui, però, abbiamo una responsabilità maggiore, come professionisti dell’informazione: quella di dare il buon esempio anche a chi giornalista non è, ma come utente dei social ha la possibilità di condividere informazioni con tutto il mondo. Educare i nostri amici a comunicare, attraverso buone pratiche, potrebbe essere un nuovo ruolo per gli “addetti ai lavori” della comunicazione, in un mondo in cui non siamo più gli unici ad aver il privilegio di informare».