Philippe Daverio e gli insulti a Junker. L’imbarbarimento della politica e della lingua

Premessa: chi scrive non è un cultore del politicamente corretto, non si entusiasma per parole artificiose come «diversamente abile». Chi scrive nutre profondo rispetto per la filologia e per il senso delle parole. Ma un conto è il significato dei vocaboli e il carattere fattuale di situazioni e condizioni, un conto sono l’ingiuria e la mancanza di rispetto. Per questo motivo, penso possa essere giudicata avvilente e volgare l’esclamazione con cui Philippe Daverio, storico dell’Arte e candidato alle europee con +Europa, ha definito, durante Tg2 Post di lunedì 29 aprile, Jean Claude Junker. Riferendosi alla questione dell’indipendenza catalana, Daverio ha criticato l’operato del presidente della Commissione europea, etichettandolo come «specie di ritardato mentale». Parole dure e inopportune, ancor più difficili da digerire (in quanto proferite da una persona che fa di cultura e bon ton il proprio cavallo di battaglia), ma che, comunque, non hanno provocato alcun tipo di particolare reazione in studio, né da parte della conduttrice, la giornalista Francesca Romana Elisei, né da parte degli ospiti, l’onorevole Alessandro Morelli (Lega) e Fausto Carioti, vicedirettore di Libero. Affermazioni che stridono con il partito al quale Daverio appartiene (che ha fatto dei diritti civili la bandiera della propria ideologia liberale) e che feriscono le famiglie di quegli italiani (circa un milione) che, nel nostro Paese, soffrono di ritardo mentale. Ad ogni modo, sarà perché Junker, di questi tempi, non è molto amato né a destra, né a sinistra, ma pare che nessuno, fra gli appartenenti alle frange ortodosse del politicamente corretto, abbia evidenziato la gravità della frase di Daverio che, per denunciare la presunta incapacità di un politico, ha utilizzato la malattia, brandendola, arbitrariamente, come un insulto. Più clamore, forse, ha suscitato, invece, la battuta della scrittrice e opinionista Maria Giovanna Maglie, che, lo scorso marzo, durante la trasmissione «Un giorno da pecora», ha affermato che se Greta Thunberg non soffrisse d’autismo la investirebbe con la propria auto. Ovviamente, si trattava di una battuta, espressa in un contesto scherzoso e satirico, ma, ancora una volta, colpisce la gratuità di certe affermazioni, l’irresistibile voglia di puntare sulla risata grassa, facile, di pancia. È l’epoca del «tramonto del padre», direbbero gli psicanalisti, del godimento che sopprime il desiderio, in cui ognuno, senza inibizione alcuna, può dire quel che vuole. Lo vediamo ogni giorno, soprattutto in politica: da Grillo (con il suo V-Day e la derisione dell’autismo), fino alle tante esclamazioni di Salvini («Questi di Bologna sono zecche per i quali ci vuole l’insetticida»), passando per il dito medio di De Luca. Un linguaggio che, da sardonico, si fa sempre più violento: si pensi a Torre Maura, dove sono volate minacce di morte, anche verso donne e bambini («Ti taglio la gola, ragazzino!»), o agli insulti islamofobi rivolti, qualche giorno fa, a  Nasri Assiya, candidata M5S in corsa per il consiglio comunale di Montoro. Insomma, di esempi, di tutti i clori partitici, ce ne sono un’infinità e non a caso, lo scorso primo maggio, Annamaria Furlan, segretario Cisl, ha pronunciato questo ammonimento: «Quanta violenza in certe affermazioni, quanta poca dignità in tante altre affermazioni». Forse, nell’epoca del trionfo della tecnica, l’imbarbarimento della politica si può ricercare proprio nell’imbarbarimento della lingua e del linguaggio. Forse, come diceva Carmelo Bene, è ora di cominciare a prendere confidenza con le parole. O, per lo meno, ritornare a prendere confidenza con le persone e con l’uomo, in nome del bene comune.