Continua la nostra rubrica per raccontare il Ramadan e capire meglio e più da vicino che cosa accade in questo periodo nelle comunità musulmane che vivono tra di noi. Questa proposta nasce in collaborazione con l’Ufficio diocesano per il dialogo interreligioso di Bergamo: un’iniziativa culturale a sostegno della conoscenza reciproca e del dialogo. Protagonista di questo “diario” è una giovane studentessa universitaria che vive e lavora nella nostra provincia. Leggi la prima puntata qui, la seconda qui. La terza qui, la quarta.
Una delle cose belle di questo periodo è riuscire a dedicarmi di più alla lettura. Specialmente trovare nel fine settimana anche del tempo per leggere il Corano. Quando ero piccola odiavo la domenica mattina. Dopo una settimana di scuola non mi veniva concessa quell’ora in più di sonno. Motivo? I miei genitori insistevano che mi svegliassi per imparare qualche sura e trascriverla a mano. Non capivo cosa facessi di male per non meritare del riposo e tanto meno perché dovessi memorizzare delle preghiere se tanto erano scritte, immobili e non sarebbero scappate da nessuna parte. Quando poi chiedevo ai miei amici se anche i loro genitori li obbligavano a fare lo stesso mi rispondevano di no, che loro le preghiere le leggevano e basta e che a memoria ne sapevano poche. All’epoca non conoscevo altri bambini non cristiani con cui confrontarmi, perciò ero giunta alla conclusione che fosse solo un’ossessione antiquata dei miei genitori. La conferma di ciò arrivò poi quando durante una lezione di storia trattammo dei monaci amanuensi che nel medioevo passavano le giornate a trascrivere testi religiosi. Durante Ramadan, il mese in cui il Corano è stato rivelato, la cosa si amplificava ancora di più. “Bisogna sforzarsi e guadagnare hasanat…durante Ramadan si moltiplicano le ricompense, ogni lettera del Corano equivale ad una buona azione!” dicevano sempre. Accumulare hasanat, ovvero buone azioni per una ricompensa davanti a Dio, ecco cosa bisognava fare. Nella mia testa questo ragionamento risuonava come una partita ad un videogame o passaparola, mi ci volle molto tempo per capire che il messaggio era un altro: qualsiasi buona azione, anche la più atomica, ti verrà riconosciuta in futuro con altrettante più grandi. Cominciai così a leggere il Corano con più interesse e in italiano, dato che mi riusciva più facile rispetto all’arabo standard. Mi accorsi però che perdeva in poesia e metrica, che letto ad alta voce non era più così melodico. Mi riconvertii all’arabo, nonostante fosse più complicato, cominciai ad amare le lingue, a cercare legami tra le parole e a sforzarmi di leggere ogni altro libro in lingua originale, alla ricerca della sua autenticità. L’arabo mi lasciava una sensazione di pace. Lo stesso conforto di cui soprattutto in questo periodo ho avuto bisogno, cosi come la necessità di ritrovare certezze perdute rifugiandomi nelle parole. E come sempre, la risposta è sempre lì nelle ultime preghiere, quelle che stanno in fondo al Corano ma che racchiudono i significati più grandi. Oggi mi sono imbattuta in queste: “Invero l’uomo è in perdita, eccetto coloro che credono e compiono il bene, vicendevolmente si raccomandano la verità e vicendevolmente si raccomandano la pazienza”. (Al-‘Asr, Il Tempo). Un messaggio universale, rivolto all’uomo e non a chi professa l’islam, per ricordare che per superare tutto basta solo tenere i denti stretti e nel mentre ricordarselo l’un l’altro.
Nadia El Ghaouat