Covid-19, cambiare prospettiva. Manuela Raciti: “Mi sono reinventata come editor”

Trasformare un periodo di incertezza e fatica in un trampolino di lancio, così da raggiungere un maggior equilibrio e una serenità nuova. È la storia di un cambiamento, è la storia di Manuela Raciti, trentatreenne originaria della Liguria, ma bergamasca d’adozione. Un cammino, quello di Manuela, non semplice, che ha richiesto tempo e riflessione e che è partito dal mondo della scuola. «Dopo il liceo psicopedagogico, frequentato a Chiavari, ho incominciato, tramite una cooperativa, a lavorare come educatrice, occupandomi di bambini con disabilità – racconta la giovane –. All’inizio, devo dire, è stato davvero impegnativo, sia perché avevo a che fare con situazioni molto delicate, sia perché, essendo supplente, mi trovavo a seguire svariati casi, in diversi istituti scolastici. Non avevo modo di mettere radici in una determinata realtà scolastica. Nonostante l’eterogeneità delle situazioni, ho però capito che quel lavoro faceva per me: era infatti una gioia poter essere d’aiuto a quei bambini che presentavano delle fragilità. La classe era il mio mondo e, tornata a casa, nonostante la stanchezza, mi sentivo soddisfatta e felice. Dopo un anno, fra l’altro, mi è stato proposto un contratto a tempo indeterminato. Questo ha contribuito a darmi una più ampia stabilità e a convincermi a proseguire su quella strada».

Per sette anni, Manuela lavora per la stessa cooperativa, fino a quando non conosce Simone e, per amore, ad agosto 2018, si trasferisce nel capoluogo orobico. «È stato difficile abbandonare la cooperativa, la mia vecchia città, abitudini e amicizie – afferma Manuela –, ma, dopo due anni che stavamo assieme, avevo voglia di raggiungere il mio ragazzo a Bergamo, città in cui abitava. Sapevo che sarebbe stata dura ricominciare tutto da capo, proprio per questo, però, non persi tempo e incominciai a inviare subito diversi curricula a molteplici realtà del territorio. Inoltre, desiderando dare una svolta professionale alla mia carriera, sostenni un concorso per diventare supplente d’asilo e mi iscrissi a un corso, organizzato dall’Università degli Studi di Bergamo, per ottenere la qualifica di educatore professionale». Durante la preparazione del concorso e durante i corsi universitari, il lavoro non stenta ad arrivare. «Una delle tante cooperative a cui avevo inviato il curriculum, dopo un colloquio, decise di assumermi – racconta Manuela –, affidandomi due bambini. Incominciai, quindi, a lavorare, a tempo determinato, come educatrice in una scuola privata della città. Fu emozionante potermi mettere di nuovo in gioco, svolgendo una professione che conoscevo bene, scoprendo, così, il gusto di un nuovo inizio». Ma i dubbi non tardano ad arrivare. «L’anno seguente, venni contattata da un’altra cooperativa che mi chiese se fossi disposta a seguire un nuovo alunno, che frequentava, comunque, la stessa scuola degli altri due – spiega la giovane –. La proposta creò in me qualche perplessità, ma, alla fine, accettai. Dopo pochi mesi, però, le maestre mi domandarono se mi sarebbe piaciuto anche organizzare le lezioni del doposcuola. Mi sentii ricoperta di fiducia, se così si può dire, e accettai ben volentieri. Ma tenere una classe intera era differente rispetto a seguire un solo studente. I carichi di lavoro aumentavano, mentre il tempo libero a disposizione diminuiva inesorabilmente. Mi sentivo spesso nervosa e triste, in ansia. Quando poi arrivò il Covid, nonostante la chiusura delle scuole e la didattica a distanza, lo stress aumentò. Mi alzavo al mattino e, guardandomi allo specchio, mi chiedevo se, veramente, ce l’avrei fatta a fare quel lavoro per tutta la vita e, soprattutto, se veramente avrei voluto svolgere la professione di educatrice per il resto dei miei giorni. Non ero più sicura delle mie scelte e mi sentivo un po’ in colpa: il lavoro che mi aveva dato tante soddisfazioni era diventato, improvvisamente, una prigione. Ma l’entusiasmo era scemato, non ero più felice, mi mancava qualcosa.

La mia frustrazione, del resto, era alimentata anche dalla paura e dalla volontà di preservare al meglio la mia salute, che risentiva e tutt’ora risente, di patologie pregresse, che fanno di me una persona ad alto rischio». Già, perché Manuela ha alle spalle una storia di sofferenza e malattia. «Sin da bambina, non sono mai stata molto fortunata – racconta la ragazza –. Alle elementari, a causa di otiti ripetute, mi si è bucato il timpano e ho cominciato a fare avanti e indietro dagli ospedali. Le continue infiammazioni mi hanno portato ad avere un tumore benigno. Sono stata operata diverse volte, anche per far sì che il male non si estendesse al cervello. In uno dei tanti controlli a seguito dell’operazione, i medici mi hanno trovato un problema al cuore: un prolasso della valvola mitrale. A 25 anni, questa patologia è peggiorata e ho dovuto sottopormi a un lungo intervento chirurgico. A seguito di un’embolia, avvenuta quando ero ancora sotto ai ferri, ho fatto dieci giorni in terapia intensiva. Un’esperienza molto triste, a cui ha fatto seguito l’ischemia transitoria capitatami tre mesi dopo, che, fortunatamente, è passata poi da sola».

Trascorsi difficili che, in una situazione di pandemia, spingono Manuela a lasciare il lavoro e a reinventarsi: «Non me la sarei proprio sentita di tornare a scuola con il virus ancora in giro, mi sarebbe mancata la giusta lucidità. Volevo tornare a far pace con il mio lavoro, ma sognavo una professione che mi garantisse sicurezza e che mi permettesse di gestire, in autonomia e nel migliore dei modi, i ritmi delle mie giornate, qualcosa, insomma, che potessi svolgere da casa. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata la letteratura, costante fissa della mia vita. Fin dalla tenera età, del resto, mi è sempre piaciuto leggere e scrivere: una passione trasmessami dai miei genitori, entrambi insegnanti. A metà delle superiori, mi sono innamorata di Stephen King. È a lui che mi sono ispirata per scrivere “Un regalo pericoloso”, racconto pubblicato nel 2015 (Panesi Edizioni), a cui ha fatto seguito, sempre per la stessa casa editrice, “Guardami negli occhi” (2016). Mi sono chiesta, allora, come potevo fare di questa mia passione un lavoro. Ho pensato subito al mondo dell’editing, che già aveva destato il mio interesse tempo addietro. Mi sono informata molto, contattando telefonicamente e via Facebook gente che, da anni, lavorava nel mondo dell’editoria, per chiedere loro un consiglio, per sapere come rendere concreta la mia idea. Alla fine, mi sono iscritta a un corso online per editor e correttori di bozze. Il corso, che mi ha dato la possibilità di essere seguita da un tutor, è durato sei mesi. Ottenuta la qualifica, il mio unico problema era come iniziare a farmi conoscere». A ottobre 2020, Manuela rifiuta la proposta, da parte della sua vecchia cooperativa, di seguire un nuovo caso. Ormai ha intrapreso un cammino diverso. «Ho aperto partita iva, per poi inaugurare un sito, una pagina Facebook e una pagina Instagram (“All you can write – servizi editoriali) –, spiega Manuela –. I canali social mi permettono di trovare, più facilmente, possibili clienti. Proprio per questo, ci tengo che siano sempre aggiornati, curati e accattivanti. Ogni giorno, pubblico curiosità sul mondo della scrittura, errori che non devono essere commessi all’interno di un libro, consigli di scrittura creativa e citazioni letterarie. C’è anche una specie di rubrica dedicata agli scrittori emergenti, in cui, gratuitamente, segnalo le loro pubblicazioni. Devo dire che, grazie al tam-tam mediatico, intanto, la situazione è davvero buona: ho avuto già un buon numero di richieste e commissioni e, ora come ora, fra romanzi da correggere e romanzi da scrivere (dato che offro anche servizi di ghostwriting), sto lavorando su quattro testi».

Una scelta di vita, quella di Manuela, non esente da rischi: «Aver aperto la partita iva, in un periodo come quello che stiamo vivendo, è forse un atto di coraggio. Non potrò più godere dei benefici di un dipendente. Non so, inoltre, come saranno i mesi a seguire. La concorrenza è spietata e molto dipenderà da me, dalle mie competenze, dalla capacità che avrò di promuovermi e di farmi conoscere, da quanto credo in me stessa. È un lavoro in cui ci si deve dar tanto da fare: non si può aspettare le occasioni, bisogna aver l’astuzia di sapersele creare, ma sono serena. Il Covid, nonostante la gravità della situazione, mi ha dato modo di scavare dentro me stessa, facendomi capire quel che veramente desideravo fare e dandomi la spinta per uscire, finalmente, dalla mia comfort zone. Mi ha fatto riscoprire una parte di me nascosta, zittita per troppo tempo, facendomi innamorare di nuovo della parola». Una rinascita che illumina il futuro: «Molti dicevano “Poi torneremo a vivere”. Io ho preferito rimboccarmi le maniche e riscattare questo tempo sospeso. Non so come sarà il futuro, se sarò pronta ad affrontare le difficoltà che mi si presenteranno. Ma chi lo è? Quel che più conta è il presente, quel che sono riuscita ad ottenere fino ad ora, basandomi, esclusivamente, sulle mie forze. Ho trovato la mia strada. Questa è la cosa più importante, perché mi fa felice e mi fa temere meno il domani».