Le dimissioni di Zingaretti: uno sciame sismico per il Pd. La svolta ancora non si vede

L’immagine dello sciame sismico è la più adeguata per descrivere gli effetti provocati dall’avvento del governo Draghi, ultima scossa quella delle dimissioni del segretario del PD Nicola Zingaretti. Di certo, le cause che le hanno determinate non sono quelle denunciate da Zingaretti, allorché le attribuisce all’avidità dei capi-corrente per “le poltrone”. Questa denuncia è la controprova più immediata dello sbando culturale e politico del segretario del PD e, dunque, del PD stesso. Che la politica si muova sul campo di battaglia del potere è esattamente ciò che deve accadere. Da sempre ambizioni personali,  volontà di potenza e molti vizi capitali accompagnano la lotta per il potere. Che però ha sempre come posta in gioco una determinata idea della società, delle istituzioni, della vita quotidiana delle persone. Che un segretario di partito scopra solo ora la forma, ma non l’essenza effettiva della politica fa specie! Significa soltanto che il livello culturale e la tenuta antropologica del personale politico, che decide, proprio per il potere di cui dispone, dei destini di tutti noi, hanno ceduto di schianto. Degno corollario ne sono le dimissioni via Facebook, l’equivalente recente del bar. Vi immaginate Berlinguer che si reca al bar di fronte a Botteghe oscure per dare le dimissioni? 

L’utilizzo del linguaggio populista non è, tuttavia, un incidente. E’ solo l’ultima conseguenza di una cultura politica, che ha generato linee politiche, scelte, alleanze, fino all’attaccamento morboso al Conte 2. 

Questo delle dimissioni è solo l’ultimo episodio di un lungo errare del PD alla ricerca di un proprio baricentro identitario. Il bruco, invece di diventare farfalla, continua a rimanere prigioniero della bava che addensa attorno a se stesso per proteggersi dagli eventi del mondo.

Il PD è nato come partito a strati. Dal Pci è arrivato, attraverso successive trasmutazioni di nomi e di pelle, gran parte del gruppo dirigente, formatosi dagli anni ’70 in avanti, alla scuola di Berlinguer, Amendola, Napolitano, Macaluso… Si tratta di D’Alema, Veltroni, Bersani, Fassino, Violante, Bettini, Zingaretti… 

Dalla DC sono arrivati Castagnetti, già segretario del PPI e poi della Margherita, Franceschini, Prodi, Parisi, Renzi…

I Cristiano-sociali con Pierre Carniti, Ermanno Gorrieri avevano già aderito al PDS, poi DS, la sigla precedente il PD.

La componente socialista che non aveva aderito al Partito delle libertà si era coaugulata nella sigla dello SDI di Boselli e Martelli, per aderire alla Cosa 2 nel 1997. Martelli se ne distaccherà con la Lega socialista.

Che cosa ha impedito l’amalgama nel PD della tradizione comunista, di quella cattolico-popolare e di quella socialista, che pure erano state co-redattrici della Costituzione e co-fondatrici della Prima repubblica? La causa materiale è stata che il sistema politico della Prima repubblica è imploso tra il 1989 e il 1994, dalla caduta del Muro in avanti, sotto la triplice spinta del leghismo, del referendismo istituzionale, di Mani Pulite.

I resti politico-culturali di quel sistema si sono così ritrovati in una sorta di ospedale da campo, l’Ulivo, ciascuno per curare le proprie ferite. L’esperienza dell’Ulivo fallì nel giro di un paio d’anni, perché comuni erano i traumi, ma nessuno aveva elaborato le terapie. Fuor di metafora: si era consolidata un’illusione trasformistica, complice la provvisoria vittoria su Berlusconi, che l’89 e quello che ne era seguito fosse solo una parentesi e che si potesse, cambiate le sigle, continuare con la stessa politica e con la stessa cultura politica di prima. 

E qual era? Che agli eredi del PCI/PSI toccasse per diritto e tradizione la rappresentanza della classe operaia, agli eredi della DC quella dei ceti medi. Per il resto, tutto doveva procedere come prima. Messe insieme le sigle, gli elettorati rispettivi avrebbero fatto altrettanto. Gli eredi del PCI hanno continuato ad usare lo stesso lessico, ciechi di fronte al fenomeno che aveva già cominciato a rendersi visibile nel corso degli anni ’90: a Bergamo il 30% degli iscritti alla FIOM votava già Lega Nord. Gli operai non stavano affatto sparendo, semplicemente avevano cessato di essere “classe operaia”. Agli eredi della DC il gioco della rappresentanza veniva più semplice: la DC aveva amministrato il Welfare e così avrebbe continuato a fare. L’unico lampo di novità sarebbe potuto venire dal lascito della cultura politica socialista, quella espressa alla Conferenza programmatica di Rimini del 1982. Era una cultura socialista e liberale, attenta alle nuove dinamiche socio-economiche e alla dimensione istituzionale, che by-passava d’un balzo quella comunista e quella democristiana. Ma si era persa dopo il 1987, con la fine dei governi Craxi, soffocata dall’andreottismo e dall’ostinata ostilità comunista. E dopo il 1994 si è dispersa, in mille rivoli, ancorché preziosi.

Il PD è nato da questa inerzia di tradizioni. Fu Renzi a rendersi conto per primo che il Paese e il PD stavano in stagnazione. Il 29 agosto 2010 lanciò lo slogan della «rottamazione senza incentivi» dei dirigenti di lungo corso del PD e la Carta di Firenze. L’8 dicembre 2013 viene eletto segretario del PD con il 67,5% dei voti, battendo tutta la vecchia nomenklatura PCI-DC. Che da allora non gli ha più dato pace. Fu ed è considerato un corpo estraneo al PD, fino alla sua (auto-)espulsione il 16 settembre 2019. La storia recente è nota. 

Quel che è evidente è che il PD non è uscito dalla stagnazione. L’ultimo tentativo di rinnovarsi, rimanendo uguale a prima, lo ha sperimentato Zingaretti, aggrappandosi al barcone di salvataggio del “populismo buono” del M5S. Che però si è rovesciato. 

Se c’è una spiegazione di questo travaglio irrisolto, che l’attuale gruppo dirigente del PD non riesce a darsi, è che continua ad usare antiche categorie di pensiero, che non vedono le nuove forze motrici della società e non sentono il bisogno di un nuovo assetto istituzionale, che ricollochino i partiti in una nuova relazione con la società, con il governo, con lo Stato. Mancano molte cose all’attuale PD, ma, in primo luogo, una capacità di interpretazione e di rappresentanza delle nuove forze produttive.

Avendo posto mano all’aratro, continuano a voltarsi indietro. E’ facile prevedere che le convulsioni siano solo all’inizio. 

  1. Condivido
    Ma mi chiedo: il PD è salvabile? o ha ormai pienamente dimostrato di essere refrattario a quella piena inclusività che è premessa necessaria della vocazione maggioritaria?
    Non sarebbe più chiaro per gli elettori se nel campo del centro-sinistra trovassero due-tre partiti distinti, ciascuno con un proprio specifico valore identitario (libertà, solidarietà, innovazione, territorio? certo non eredi PSI, eredi DC, eredi PCI!) ? E poi, “competition is competition”.
    E in questo quadro, dove vorrebbe collocarsi AC? vanno benissimo le liste autonome alle elezioni comunali, ma per il parlamento nazionale cosa si farà, gli indipendenti nelle liste PD o una lista alternativa con quali alleati dall’idem sentire? Spero la seconda, ma non si sarà credibili con gli elettori se la si presenterà 50 giorni prima delle elezioni …

  2. temo, che oltre all’aratro che rivolti le zolle, ci debba essere una bella “rinfrescata” che rinvigorisca il terreno di semina, laddove ci sia bisogno di un cambio di coltura affinché la “produzione” di nuove “piante” possano crescere forti e rigogliose! Basta leggere la nomenclatura che da anni governa(almeno 14 su 20)e che come primo pensiero fosse il mantenimento di “potere” per assecondare i vari ambiziosi “stipendifici” dove mettere i propri espulsi dalle votazione che a volte portate allo sfinimento con il pretesto che la rappresentanza parlamentare prevede che la legislatura duri 5 anni, ma che, come il cane che si morde la coda, niente si è fatto, anzi se ne è contrastata l’effettuazione, di rinnovarne la regolamentazione laddove la Costituzione ne prevede la possibilità! mi viene da chiedere solo il PD? ma ciò che avviene nel PD è frutto di una ottusità mentale, non a caso ma strategica, per tenere sotto scacco un elettorato parziale(il 40% non va a votare), che rimane legato ai benefici ottenuti in modo egoistico e poco lungimirante:si veda cosa si è fatto per i giovani costretti a espatriare! La pandemia ha scoperchiato le pentole che già erano in ebollizione da tempo e che ha dato come risultato un movimento che raccogliendo le proteste minacciose di alcuni facinorosi, si è proposto per mandare a “schifio” quella classe politica, a parer loro, ma non solo, che ne è stata causa del “nostro mal”. Ed ora, con un personaggio di nome Conte, che si propone di essere la persona che riuscirà a riunire ciò che del PD rimane con il resto “istituzionalizzato” del M5S, cosa resta al PD? Rimane quella parte che con Renzi ha cercato di cambiarne la Costituzione, e che ancora si riunirà, penso, prendendo quel filo interrotto dal famoso referendum 2016 e, quindi, ricominciamooooo!!!ma ora c’è Draghi, e penso che dopo di lui, le cose non saranno più come prima , e chi rimarrà a galla, dovrà sudarsi 7 camice per mantenere la credibilità del caso! Buona Vita Italia e trova il coraggio di essere, finalmente, all’altezza di una situazione, che non ha confronti!

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