La spaccatura

“Lo scisma sommerso”. Cosi quindici anni fa in un saggio edito da Garzanti, Pietro Prini, filosofo di provata fede, analizzava la spaccatura sotterranea, sempre più estesa, tra il magistero ufficiale della Chiesa cattolica e le scelte di vita dei credenti. Prini partiva da un dato di fatto che la gerarchia, a suo dire, fingeva di ignorare: al di là degli apparenti trionfi, dei luoghi di culto affollati a Natale e a Pasqua, nella Chiesa è in atto uno “scisma sommerso”, perché si sta creando un divario profondo, forse irrecuperabile, tra la dottrina e le coscienze. I segnali dello scisma sono tanti e arrivano da più parti. Dai molti che decidono oramai di non confessare più alcuni peccati, un tempo ritenuti importanti; ai troppi che abbandonano e vanno per la loro strada. Un fossato che si allarga sempre più, in particolare nel campo della morale. Spesso percepita come “insignificante”, nel senso originario del termine, questa parola non tocca più quelli e quelle ai quali è indirizzata, non li raggiunge più.

“SCISMA SOMMERSO”

Attorno al tema si sono scatenate, nel corso di questi anni, vivaci e animate discussioni. In modo particolare, sostenute da quanti ritengono l’attuale crisi imputabile alla mancata proclamazione, da parte dei credenti, della verità e della “dottrina”. Occorre – sostengono costoro – tornare a proclamarle con chiarezza e forza, insieme ai valori connessi. I convinti di questa tesi, di solito esprimono un giudizio severo sul tempo presente e sulla cultura ma anche sui metodi di evangelizzazione e di catechesi messi in atto fino ad ora, considerati deboli e in parte responsabili della situazione attuale.

La questione è interessante perché permette, a mio avviso, di chiarire l’idea di “tradizione”. Parola tanto evocata quanto abusata. Per i sostenitori come quelli sopra, questa è da intendersi, esclusivamente, nell’atto di “custodire il deposito” piuttosto che di svilupparlo. È il problema della parabola dei talenti: secondo il tradizionalismo, il più fedele sarebbe stato quello che li nasconde e non quello che li traffica. Il modello di fedeltà è statico. Se certe istanze non sono recepite all’interno della Chiesa, esse trovano risposte altrove. Questo atteggiamento mette in campo la questione della libertà. Il problema dell’obbedienza nella libertà. Nella Chiesa la libertà pare non godere di molta fortuna. Quindi si creano due situazioni estreme: da una parte abbiamo la rottura e dall’altra l’integralismo. Sono aspetti antitetici, ma, a ben pensarci, sono anche le due facce della stessa medaglia.

Penso a tutto questo mentre leggo con attenzione le 38 domande del questionario sulla famiglia inviato a tutti i vescovi del mondo perché anche le Chiese locali, i parroci e i singoli fedeli partecipino alla preparazione del Sinodo straordinario che si svolgerà in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014. È la più grande consultazione mai effettuata dalla Chiesa cattolica. Con domande non paludate, che non si sottraggono ai temi morali più spinosi. Un metodo originale che ha l’obiettivo di avviare una discussione e un confronto per una Chiesa veramente “comunionale”, quella in cui la libertà è vissuta e assunta responsabilmente dal credente che percepisce come attesa e auspicata la propria voce, anche quando risuonasse differente e dove si prende sul serio l’ascolto della vita delle persone concrete, dei loro problemi, dei loro interrogativi e bisogni.

UNA PROSPETTIVA

«Se una persona è gay e cerca il Signore – ha detto Papa Francesco ai giornalisti al ritorno dal GMG di Rio de Janeiro – e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». E, nell’intervista a La Civiltà Cattolica ha specificato: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».

Di fronte alle questioni in gioco, complesse e articolate, del tempo presente il Papa sembra puntare su una più esplicita centralità del Vangelo rispetto alla morale. Forse non basta. Forse non risolve tutti i problemi. Certamente ha la forza di indicare un impegno anche alla Chiesa. L’unico per cui ha ragione d’essere: convertirsi al Vangelo. Le parole dei cristiani, scrive un teologo italiano, «non passano nell’attuale contesto non perché le persone non capiscono o sono più cattive rispetto ad un tempo né perché i metodi di evangelizzazione sono superati (lo sono ma non è la questione principale) ma perché le parole del Vangelo paiono, spesso, non parlare più alla Chiesa stessa».

Solo questa conversione (quella che chiediamo sempre agli “altri”) “riformula” il volto della Chiesa in modo che diventi icona del Vangelo e ci porta a stare volentieri e in modo dialogale dentro la nostra storia e la nostra cultura. Non c’è altra strada.

IL TUO PARERE

La Chiesa si deve convertire? Come, dove?