Gli invisibili

Gli invisibili sono le persone che non riconosciamo. Le vediamo sì, ma se va bene le consideriamo un fastidio. Più spesso, però, non le consideriamo affatto. Non sono il prossimo di cui ci piace occuparci. C’è, per esempio, l’indiano che vende rose semisoffocate dalla carta argentata in città all’incrocio tra via Tommaseo e via Piatti.  Ci sono i lavavetri della Malpensata, che si avventano sul parabrezza anche se gli fai segno mille volte di no, e non si fermano finché non hanno finito, che scatti il verde o no. Ci sono i parcheggiatori che stazionano in viale Papa Giovanni XXIII accanto al Centro Congressi, e non gli importa se il parcheggio già si paga, in fondo loro ti hanno aiutato a trovare un posto, quindi… E poi c’è la “truppa” del nuovo ospedale, dove le schiere di questuanti sono sempre nutrite e di diverse nazionalità. In gruppo, se diventano insistenti, a volte fanno anche un po’ paura.
C’è la signora rom che si presenta ogni mattina al semaforo di Sant’Agostino: il rosso lì dura oltre due minuti, ma è sempre poca la gente che ha voglia di abbassare il finestrino, anche se sul cartello di cartone che la signora porta c’è scritto: “Sono povera e ho due bambini”. In via XX Settembre c’è una grande varietà di venditori ambulanti, dagli africani forniti di qualunque chincaglieria etnica a quelli che semplicemente si avvicinano per chiedere “un euro, per favore, per mangiare”. Anche nei parchi cittadini, poco lontano da dove giocano i bambini, ogni tanto si vede qualcuno che ha lo sguardo perso e viaggia con una coperta in spalla e la sua “casa” raccolta in un paio di sacchetti di plastica. E poi, i poveri della stazione. Ce ne sono tanti, ognuno nel suo angolo, stranieri e italiani, senza dimora e tossicodipendenti. Spesso ci diciamo che “è impossibile aiutarli tutti” e allora diventa più facile tirare dritto e non aiutarne nessuno. Non li guardiamo e forse potrebbe anche questo essere un modo per difendersi dal dolore, dal senso di fallimento che rappresentano, così lontano da ciò che noi vorremmo essere, così vicino alle nostre paure più inconfessabili.
La Quaresima è iniziata da una settimana e tra gli inviti che il vescovo di Bergamo Francesco Beschi ha rivolto a tutti c’è quello di farsi prossimi ai più deboli, tendere la mano a chi soffre: e la diocesi ha scelto di farlo spendendosi in prima persona, offrendo, tra le altre cose, una casa e servizi più efficaci alle persone senza un tetto e senza mezzi, i cosiddetti “senza dimora”. Così noi del Santalessandro abbiamo scelto di andare a incontrare queste persone, “gli invisibili” della nostra città e provare a renderle più vicine, accessibili, seppure per poco, seppure soltanto nel piccolo spazio di cui disponiamo. E questo è il dossier che vi proponiamo questa settimana, fatto non di grandi discorsi ma di storie. Abbiamo scoperto per prima cosa che avvicinarli e parlare con loro non è facile: tutti i “no” che collezionano ogni giorno, l’indifferenza e in qualche caso l’ostilità dei passanti li hanno resi molto diffidenti, restii a concedersi e a uscire dalla “maschera” che indossano per sopravvivere. Ma una volta conquistata un po’ di fiducia, abbiamo scoperto anche che nelle loro vite c’è molto che vale la pena di scoprire: sogni, desideri, una speranza che cova in fondo al cuore anche nelle condizioni più difficili, e che ci mette con una certa durezza di fronte a noi stessi. Ci offrono, soprattutto, uno sguardo diverso sul “nostro” mondo.

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