Il carrellista

«Yes, but in english!» Mi dice con una buona pronuncia. Sì, me la rilascia l’intervista, ma in inglese. Il suo italiano è incerto, conosce qualche parola, giusto il necessario per sostenere brevi conversazioni con i passanti. L’unica cosa che si sente di dirmi in italiano è «io vivo di carrelli». E. (mi dice solo l’iniziale del suo nome) è uno di quelli che trovi fuori dai centri commerciali che ti caricano la spesa in macchina in cambio della monetine del carrello. Non ha troppa voglia di parlare del suo lavoro, sente quasi un senso di imbarazzo nel farlo. Preferisce parlarmi della sua storia, dei suoi sogni, delle sue prospettive di vita.

«Vengo dalla Nigeria. Sono arrivato in Italia 4 anni fa con tanti sogni e tante speranze e invece mi trovo qui a vivere di carrelli». Nelle parole di E. non c’è cattiveria, non c’è rabbia per la sua situazione economica e lavorativa. C’è solo il desiderio di dimostrare le sue potenzialità con l’amara consapevolezza di non poterlo fare. Al momento vive la giornata, pensa a procurarsi da mangiare per oggi e domani si vedrà: «Mi sveglio alle 8 del mattino, vado in giro a dare il mio curriculum e poi vengo qui. Ogni giorno mi piange il cuore a stare qua. Vorrei lavorare, vorrei rendermi utile. Sono forte, probabilmente sono anche più forte di te – dice scherzando – vorrei dimostrare la mia forza, vorrei creare qualcosa di buono nella mia vita».

Gli chiedo di raccontarmi della sua vita, della Nigeria. Perché sei venuto in Italia? «Perché la mia famiglia è povera. Mi ha fatto male lasciare la mia Terra, ma non potevo fare altrimenti. Sembra strano a dirsi, visto come vivo qui, ma ci sono comunque più opportunità che al mio Paese. Non solo. Il grande problema della mia Nazione è la sicurezza» racconta E. «Se in Italia due persone cominciano a picchiarsi la polizia arriva immediatamente a sedare la rissa. Nel mio Paese la polizia non arriva neanche se ci scappa il morto. È impossibile vivere tranquilli e io preferisco l’umiliazione di chiedere la monetina del carrello a una sopravvivenza nel degrado del mio Paese!».

Nei suoi occhi c’è la speranza. La speranza di un domani migliore. Un domani che vede già definito, con degli obbiettivi precisi: «Vorrei andare a scuola per imparare l’italiano e una professione. So riparare le macchine e fare il saldatore per esempio. Ma come faccio a pagare la scuola se non ho un lavoro? E come me sono in tanti. Noi abbiamo dei sogni, voglia un futuro migliore». Già, ma come sarà il futuro? Qual è il suo grande sogno? Quello di creare una famiglia qui, in Italia. È sposato e anche la moglie non ha lavoro. «Ma sono sicuro che, con l’aiuto di Dio, potrò realizzare i miei sogni. Tu credi in Dio?». La domanda mi spiazza. Di fronte al mio imbarazzo decide di darmi il k.o.: «Cercalo nel tuo cuore e Dio aiuterà anche te».

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