Ebrei e Palestinesi

Sono in partenza, di nuovo, per la Terra Santa. Un viaggio tra le pietre e i luoghi della vicenda di Gesù, di Nazareth appunto, e, soprattutto, cercando di incontrare le “pietre vive”, i cristiani, le donne e gli uomini che hanno custodito e tramandato, per duemila anni, la nostra fede. Farò i conti, come ogni volta, con la questione politica che da molto tempo infiamma quelle terre. Non sarà facile.

UNA  TERRA, DUE POPOLI E TANTE RAGIONI

Come non è facile scrivere del conflitto israelo-palestinese che ciclicamente, con una sinistra cadenza, entra prepotentemente nelle nostre case. Non è facile perché ogni qualvolta lo si affronta, il rischio del pregiudizio – ideologico, politico e culturale – è in agguato. Con uguale facilità, i partigiani dell’una e dell’altra parte, azzerano ogni complessità, riducono a frammenti grumi di pensiero e di storia che andrebbero sezionati con cura, analizzati con rigore. Quasi sempre, invece, sono scelte di campo che non lasciano spazio a dubbi, ostentano certezze, non riconoscono le ragioni dell’altro. Perché questo è il dramma che si trascina sin dal 1948, anno della fondazione dello Stato d’Israele: il dramma di due popoli che hanno entrambi forti ragioni da esibire. Gli ebrei – quando nasce lo Stato d’Israele – ritrovano una terra dopo duemila anni di esilio forzato che ha significato diffidenza, oltraggi, emarginazione, segni distintivi, chiusure in ghetti, espulsioni, fino allo sterminio sistematico operato dall’ideologia razziale e biologica nazionalsocialista. Un lungo martirologio, sfociato nella Shoah, che ha trovato linfa e alimento anche da un sentimento antigiudaico coltivato nel corso dei secoli all’interno delle comunità cristiane. Da “perfidi giudei”, usato, fino al 1958, durante la preghiera universale della liturgia del Venerdì Santo a “fratelli maggiori”, il saluto rivolto da Giovanni Paolo II il giorno in cui viene ricevuto dal Rabbino Toaff alla sinagoga di Roma: in questa lunga parabola, ci sta tutto il cammino di conversione della Chiesa e dei cristiani riguardo gli ebrei.

Lo Stato d’Israele nasce da una risoluzione dell’ONU ma su una terra che da secoli vede la presenza di arabi palestinesi. I quali, a partire dal 1948, sono stranieri nella casa che hanno sempre abitato. Centinaia di villaggi distrutti e cancellati dalle carte geografiche, migliaia di profughi illusi o costretti a lasciare case e terreni, un territorio segnato progressivamente – soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, del giugno del 1967 – dalla presenza di check point e da numerosi insediamenti in zone occupate e mai più restituite. Nello scacchiere geopolitico, i palestinesi non contano: abbandonati al loro destino dai “fratelli” arabi che pure strumentalmente li esibiscono come merce di scambio, in diaspora e divisi, succubi di organizzazioni e sistemi politici poco democratici e corrotti, attratti da un uso identitario della religione, rinchiusi in un’impotenza che si trasforma in rabbia e qualche volta in violenza.

Basta recarsi Cisgiordania, dove – rispetto all’inferno di Gaza – la situazione è più “normale”, per respirare l’aria di paura e di disperazione che vi regna. La gente palestinese resiste da decenni all’occupazione, alla segregazione, all’esproprio di terre, alla mancanza di libertà e dei diritti più elementari. Il muro – garanzia di sicurezza per Israele, vergogna e elemento di separazione per i palestinesi – la stringe sempre più in una morsa. La terra viene confiscata, rubata dagli insediamenti sempre più numerosi, dalla ragnatela di strade riservate agli israeliani, dai checkpoint che controllano anche i confini interni zone A, B, C (zone palestinesi, a controllo misto, territori ad esclusivo controllo israeliano). Non esiste la libertà di muoversi da una zona all’altra; serve un permesso rilasciato dai militari, ma anche con il permesso si può essere fermati ad uno degli infiniti checkpoint; e così si perde il lavoro, non si può andare a scuola, non si può raggiungere l’ospedale. Senza un’unità territoriale non rimane nemmeno la speranza di costituire in un futuro uno stato palestinese.

La violenza è da condannare da una parte e dall’altra. Ma certo non si può pretendere sicurezza seminando disperazione, occupando territori altrui, umiliando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di occupazione permanente. E tutto questo nell’assoluta indifferenza della comunità internazionale.

UNA SOLIDARIETÀ CRITICA

Eppure ogni volta mi convinco che non servono le manifestazioni di parte. Agli israeliani ed ai palestinesi non servono degli amici che siano tanto più amici degli uni, quanto più nemici degli altri. L’unilateralismo non aiuta a risolvere alcunché. A volte ho la netta impressione che l’occidente non sia ancora pronto ad affrontare seriamente la questione mediorientale. E come potrebbe, se manca un’informazione corretta ed approfondita, se tutto quanto accade subisce la deformazione delle ideologie e delle parti. Sono convinto, piuttosto, che si debba lavorare per, non contro. Per la pace e la giustizia, la libertà e i diritti di tutti per tutti, non contro una o l’altra parte.

Non si tratta di essere indifferenti alle differenze, di non avere un’idea precisa in ordine al conflitto in corso; si tratta di mantenere una posizione di equiprossimità, una solidarietà critica che possa aiutare gli uni e gli altri a mantenere aperto il dialogo. Qui, come là. Solo un atteggiamento di mediazione può aiutare la comunicazione. Ed allora le parole vanno ancora più soppesate e pensate. Per non contribuire, qui e là, al conflitto, per non alimentare lo scontro.

 GUARDARE LE SOFFERENZE DEGLI UNI E DEGLI ALTRI

Lo sappiamo: la guerra, l’aggressione armata non risolvono nulla, anzi potenziano le rabbie e gli estremismi, da una parte e dall’altra. Va finalmente affrontato con decisione e pacatezza il problema storico della convivenza sulla stessa terra di due popoli. Vanno riconosciute le sofferenze di entrambi i popoli e le ingiustizie, passate e presenti. Vanno riconosciuti i diritti fondamentali di ogni persona che abita Israele e la Palestina (che sta scomparendo a poco a poco dalle cartine geografiche).

Poco noi possiamo fare. Ma almeno questo lo dobbiamo fare. Informarci, sapere cosa accade veramente, ribadire il diritto di tutti ad una vita dignitosa ed in pace. Mantenere rapporti di amicizia con entrambe le parti, ma allo stesso tempo denunciare con forza le ingiustizie, la sopraffazione, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.

Ma restare terzi. Nella nostra impotenza, questo possiamo fare.