RUAH, SOFFIO SOLIDALE

Proseguiamo il nostro viaggio nelle comunità d’accoglienza: oggi facciamo tappa alla cooperativa Ruah, alla quale fanno capo diverse case d’accoglienza dedicate ai migranti e numerose attività d’incontro interculturale. Dalla Ruah partono anche  piccole iniziative “imprenditoriali” che uniscono alla cultura dell’incontro un senso di solidarietà e dignità.

Si dice “Ruah”, si intende “spirito, soffio vivente”: la Cooperativa Impresa Sociale bergamasca che porta questo nome nasce nel 2009 dall’evoluzione dell’Associazione Comunità Immigrati Ruah che ha lavorato nel territorio dal 1991 nell’ambito dell’accoglienza dei migranti e sui temi dell’incontro interculturale. L’obiettivo è creare un senso comune basato sul rispetto e il riconoscimento di ogni essere umano, per regalare a tutti, appunto, un soffio di solidarietà e dignità.

“Per quanto riguarda l’accoglienza ordinaria Casa Amadei ospita circa sessanta persone” dice Andrea Baroni, educatore del Centro maschile presso via San Bernardino a Bergamo. “Vengono prevalentemente dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana. Ma abbiamo anche ospiti provenienti dall’Asia, dal Sud America e dall’Est Europa. Venticinque posti fanno parte del progetto SPRAR, ossia i richiedenti asilo e rifugiati, che hanno esigenze particolari e che sono seguiti da una figura professionale che segue il loro specifico iter insieme all’equipe cittadina. Sussistono poi altrettanti posti a pagamento, ovvero riservati a tutti coloro che hanno un lavoro e riescono quindi a mantenersi da soli. Da ultimo, ma non meno importante, abbiamo dieci posti per i casi più fragili, inseriti dagli assistenti sociali del territorio”. Il Condominio solidale Mater conta circa trentacinque persone fra donne e minori. Sessanta individui si trovano invece in seconda accoglienza (abitano stanze e appartamenti presso il Patronato San Vincenzo e in alcuni paesi della provincia: Stezzano, Seriate, Colognola e Albano Sant’Alessandro), queste sono persone già avviate alla vita sociale e abbastanza integrate nel territorio, hanno già fatto un percorso con Ruah ma hanno difficoltà a trovare una casa. Tutte le strutture di accoglienza di Ruah (come anche il dormitorio Galgario che risponde per le emergenze letto, gestito insieme a Caritas e Associazione Pugno Aperto) prevedono la collaborazione con la Chiesa e il Comune di Bergamo: una fitta rete solidale fra privato-sociale, pubblico e Comunità cattolica, che coopera sul territorio in maniera efficace e costruttiva.

“Con le persone che presentano delle criticità, dei traumi dovuti al vissuto nella terra d’origine o nel loro tragitto di migrazione” ci spiega Andrea “si lavora su colloqui individuali, su un supporto psicologico.” Il percorso con gli ospiti più fragili è infatti più lungo e profondo, si cerca di analizzare la loro storia personale, il loro viaggio (alcuni arrivano in Italia stipati su un gommone, altri nascosti in un camion) e in questo modo si possono attivare delle risorse in modo più consapevole.

Ci sono uomini e donne che hanno subito un vero e proprio trauma migratorio: le continue interazioni tra cultura individuale e cultura “esterna” si sono rotte e ciò ha fatto crollare alcuni individui in fasi di marginalizzazione. In un contesto così differente e lontano dalla terra d’origine e dal proprio vissuto da molto punti di vista, non sentivano più di possedere le loro competenze lavorative e cognitive. “Purtroppo” confida Andrea “stanno aumentando casi di depressioni e problemi psichiatrici dovuti a questi traumi, e aggravati dalla grande difficoltà nel trovare un lavoro. In casi estremi come questi abbiamo chiesto il supporto di altri organismi specializzati”.

L’organizzazione è fondamentale: per tutti gli ospiti del Centro il progetto educativo ha un tempo definito in base alle problematiche e alle esigenze di ciascuno.  Anche se le emergenze non mancano e vanno gestite: pochi giorni fa sono giunti trenta profughi da Lampedusa e proprio nelle ultime ore sono stati smistati fra le varie strutture in base alle rispettive esigenze. A seconda del percorso di ogni ospite gli educatori garantiscono, oltre alle attività di ascolto, progettazione, monitoraggio e verifica degli obiettivi, l’accesso alla scuola di italiano, la conoscenza dei servizi sul territorio e della comunità locale, la dotazione di strumenti per effettuare un’efficace ricerca di un impiego e migliorare la propria formazione professionale, l’accesso alle cure adeguate in caso di malattia e l’accompagnamento burocratico.

Soprattutto in queste mansioni pratiche il ruolo dei mediatore è fondamentale: Djaby Mohamed (32 anni) in Italia da cinque, viene dalla Guinea. Insieme ai suoi compagni aiuta e facilita la relazione bilaterale tra ospiti e istituzioni. Tranquillizza le persone, instaura con loro un rapporto di fiducia grazie anche alla conoscenza approfondita di diverse lingue, requisito fondamentale per poter interagire.  Djaby conosce l’italiano, il francese, l’inglese, l’arabo e i dialetti africani. Spesso i migranti appena giunti sul territorio conoscono solo il loro specifico dialetto d’origine e circa la metà delle persone non sanno scrivere nemmeno il loro nome.

Anche Loukilu Driss investe la mansione di mediatore: viene dal Marocco, ha 58 anni e si trova in questa comunità da sei mesi, ma è in Italia dal 1984. Anche lui parla fluentemente italiano, inglese, francese, arabo e dialetto marocchino. Ci racconta che il ruolo del mediatore è fondamentale anche nella gestione di eventuali conflitti: persone di culture diverse e abitudini opposte possono incorrere in ostilità. Instaurare legami di solidarietà e stima è importante per garantire una buona socializzazione. Oltre a incontri e riunioni gli ospiti possono frequentare laboratori teatrali e musicali, aderire la squadra di calcio della Comunità Ruah, partecipare a momenti di scambio e conoscenza con altri gruppi.

A Casa Amadei ogni nucleo familiare ha i suoi spazi, gestisce da sé la spesa, ha un frigorifero e un armadietto: insomma l’indipendenza è quasi totale. Ma, racconta Andrea appagato, gli ospiti spesso creano da sé una vita comunitaria, senza che tale atteggiamento venga indotto dagli educatori. Condividono i pasti, si aggregano per attività ricreative, si realizza insomma un auto-mutuo-aiuto spontaneo fra gli ospiti, spesso di diverse culture e religioni. Ruah, il “soffio solidale” appunto, si trova anche in una grande tavola apparecchiata per tante persone e storie diverse.

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