L’Islam e l’inevitabile strada del dialogo

Le immagini feriscono e lasciano il segno più di molte parole. La fuga disperata degli yazidi, la caccia al cristiano, l’assedio ai turcomanni, la decapitazione di infedeli. Un’estate che ha fatto rimbalzare l’idea – sostenuta dalla maggioranza dei media – che l’Islam sia “quello” e che i leaders musulmani non abbiano ancora preso, in modo chiaro e definitivo, le distanze da questi fatti sanguinosi. Eppure questa convinzione è priva di fondamento e ignora, si spera in modo non deliberato, le moltissime prese di posizione da parte di autorità e comunità islamiche che, in Italia e nel mondo, hanno denunciato con forza i crimini contro l’umanità e contro l’idea autentica di Islam operati dal sedicente Stato Islamico.

LA RIVINCITA DI DIO

“La rivincita di Dio”, cosi si intitolava un famoso e illuminante saggio di Gilles Kepel, uno dei più noti politologi e orientalisti europei, pubblicato un po’ di anni fa. Ma il ritorno del “religioso” – trasversale, seppure in modi diversi, in tutte le confessioni religiose – pare creare soprattutto un forte richiamo identitario. Dio diventa un “rassembleur d’hommes”, “serve a tirare insieme” gli uomini. La fede “forte” in Dio è una fede che divide. E infatti, se Dio è dalla parte di qualcuno, come si fa a invocarlo perché sia dalla parte di tutti? Che cosa pensare dell’accusa di intolleranza che si rivolge talvolta alle religioni monoteiste? Domande con le quali il nostro tempo – che ha lasciato definitivamente alle spalle i predicatori dell’eclissi del sacro e della fine delle religioni a causa della secolarizzazione e della modernizzazione imperanti in un mondo sempre più dominato dalle scienze e dalle tecnologie – deve fare sempre più i conti.

METTERE AL CENTRO DIO, NON LE RELIGIONI

Nel frattempo, è giunto il tempo perché le fedi imparino a dialogare. «Essere religiosi è essere interreligiosi», così recita, senza mezzi termini, una dichiarazione dell’Associazione teologica indiana. D’altronde, è sotto gli occhi di tutti: il mondo si fa ogni giorno più piccolo e le persone intrecciano, molto più di prima, culture e religioni. Dalla pluralità nasce l’incontro e oggi il confronto tra religioni diverse, anche nelle nostre comunità, non è più un hobby lasciato a qualche solitario ma diviene una necessità concreta, un’esperienza vissuta. Certo, ci sentiamo impreparati perché sul piano dell’incontro tra religioni differenti siamo ancora all’età della pietra e perché tale domanda sfida quello che sembra un assioma incontrovertibile: le religioni come fonte di divisioni, di guerre, fomentatrici di fanatismo e di fondamentalismo. Eppure, a poco a poco, sotto l’incalzare di una società secolarizzata, stretta da una parte da orizzonti troppo corti e dall’altra da fughe intimiste di stampo oriental-new age, le religioni sentono la sfida di riuscire, nella loro diversità, a raccontare la tenerezza divina. Certo, serve incoraggiare e far crescere la conoscenza dell’altro ma, ancora di più, bisogna andare verso una visione che metta al centro non le religioni ma Dio stesso. Più che mai occorre percepire che la mia “verità” deve fare i conti con la verità dell’altro e rispettarla, che la mia “unicità” deve tener presente l’unicità dell’altro. Anzi, occorre abituarsi a considerare l’alterità come occasione di comunione, non come pretesto di scomunica e di violenza. Quale verità è mai quella che accetta di essere diffusa e propagandata dalla violenza? O nutrita dal disprezzo e dalla denigrazione del diverso? «La verità scissa dall’amore non è Dio, ma diventa un idolo che non bisogna amare né adorare», ha scritto Pascal. Il Nuovo Testamento afferma che occorre «fare la verità nella carità» e questo significa iniziare una pratica cordiale dell’alterità che «porti ad attendere e rispettare i tempi degli altri, e dunque le concezioni culturali e religiose del tempo elaborate in altre aree geografiche. Della verità, come della salvezza (e dei suoi tempi) non è padrone l’uomo, ma il Dio padre di tutti!» (Enzo Bianchi)

AL CUORE DELLA PROPRIA ESPERIENZA SPIRITUALE

Con una precisazione doverosa: è solo la maturità spirituale e la sapienza con cui si vive la propria fede che aprono al dialogo interreligioso. Il cristiano sarà pronto al dialogo non quando o perché diviene esperto di una o più religioni ma nella misura in cui raggiunge la profondità di fede.