Una crescita ragionevole. Per evitare la catastrofe

Immagine: Il logo dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change)

Il count down è scattato. Abbiamo davanti dieci anni per evitare la catastrofe climatica. E bruceremo i primi sette senza impegni obbligatori per metterci al sicuro: solo nel 2020 dovrebbe entrare in vigore un accordo globale, ancora da definire, per tagliare le emissioni serra. Le cifre del divorzio tra scienza e politica sono contenute nel quinto rapporto che l’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change), la task force scientifica dell’Onu che ha vinto il Nobel per la pace, ha reso pubblico poco tempo fa. Il testo, 2.200 pagine frutto di 6 anni di lavoro di 209 scienziati coadiuvati da un team di 1.500 esperti, è ora al vaglio dei governi, ma i numeri sono ormai definiti. Gli scenari previsti per la fine del secolo sono quattro. Nel più drammatico – prendendo la media delle previsioni – i mari saliranno di 62 centimetri e la temperatura crescerà di 3,7 gradi rispetto al periodo 1986 – 2005: dunque sfonderà il muro dei 4 gradi rispetto all’epoca preindustriale, il disastro paventato dalla Banca Mondiale in un allarmato rapporto del novembre scorso. Nello scenario più favorevole, i mari cresceranno di 24 centimetri e la temperatura aumenterà di un grado rispetto al periodo 1986 – 2005. E dunque di 1,7 gradi rispetto all’epoca preindustriale, sfiorando così la soglia dei 2 gradi considerata dai governi il limite di sicurezza da non superare.
Tutto questo, diciamoci la verità, pare non interessare ad alcuno. La gran parte di noi vive a prescindere e senza prendere in considerazione allarmi come questi che, a ripetizione, vengono fatti rimbalzare dai media. Un’impermeabilità che mostra, nei fatti, la vittoria indiscussa di un modello di civiltà e di crescita. Ed evidenzia la totale incapacità critica di gran parte di noi, anche cristiani, che mal sopportano pistolotti moralistici e apocalittici. Altro che “sora nostra madre terra”….

IL VOLTO FELICE DELLA SOBRIETÀ

D’altronde, parole come sobrietà, essenzialità, suscitano in genere, nella nostra società strutturalmente consumistica, il senso di dover andare contro corrente, di limitare le possibilità che ci sono date, di rinunciare a qualcosa che comunque è disponibile. Raramente si associa a queste parole il significato di una diversa forma di pienezza del vivere, di una ricerca di ben-essere che si rivolge consapevolmente, attivamente, costruttivamente ad obiettivi di liberazione dell’io dal giogo dell’iperattività, dell’iperconsumo. Non mancano tuttavia studi, riflessioni, ma soprattutto esperienze importanti di vita, a livello di famiglie, gruppi, comunità locali (anche nella nostra terra bergamasca) e comunità più vaste che mostrano il volto felice della sobrietà, la razionalità scientifica dell’operare dentro i limiti, la soddisfazione derivante da una cittadinanza attiva che include le diversità, che abbassa le prestazioni ottimali in favore di un benessere più diffuso, che smitizza la “crescita” ad oltranza. Esperienze che smascherano il “re nudo” della ricetta universale della crescita.
In campo scientifico dai primi seri studi del 1972 (The limits to growth) faticosamente la comunità accademica riconosce ormai l’impossibilità di proseguire con questo modello di sviluppo, sia per le sue drastiche conseguenze sui cambiamenti climatici (irreversibili), per il superamento dell’impronta ecologica totale del pianeta e, infine, per l’evidente aumento della forbice dell’ingiustizia sociale.
Ma l’atteggiamento di fronte al razionale riconoscimento del superamento dei limiti biofisici non è unanime. Mentre alcuni scienziati lavorano, nei rispettivi campi, col paradigma dell’ottimizzazione dei flussi di materia ed energia dentro sistemi sostenibili, altri sono ancora guidati dalle chimere dell’andare “oltre”. A fronte di circa 800 milioni di ipernutriti ed un equivalente numero di denutriti qualcuno ancora propone soluzioni (tecnologiche) per l’aumento della produzione di cibo, evitando di vedere l’inadeguatezza della politica alimentare mondiale.

QUESTA SÌ CHE È FEDE

Sperare che il connubio scienza-tecnologia possa risolvere qualunque problema di carenza dev’essere finalmente riconosciuto come un atteggiamento fideistico, che va a braccetto con l’ideologia della crescita.
Chi propone altri paradigmi di lettura del mondo viene spesso tacciato, in modo semplicistico e liquidatorio, di essere antiscientifico o fuori dalla storia. Niente di più falso. C’è dell’ottima scienza che ha sposato la razionalità della sobrietà, la necessità dell’essenzialità, e fornisce le soluzioni tecniche percorribili, a patto di un cambiamento di direzione, a patto di avere quadri di riferimento sociali, politici, normativi diversi e oggettivamente più razionali.
Pensiamo solo a come si affronta la “domanda crescente” di energia: si può dare per scontato che i presupposti che la rendono crescente siano validi, intoccabili, siano quasi un fatto di natura, e allora bisogna cercare il modo di aumentare, trovare altre risorse, sfruttare altri territori, pagare il “prezzo del progresso” in termini di inquinamento e conseguenze rischiose, ben sapendo che mai l’intera umanità potrebbe permettersi il livello di consumo dell’uomo occidentale; oppure si può mettere in discussione il modello economico/mentale che genera per forza propria questo bisogno crescente e dedicare gli sforzi scientifici, tecnologici, ma soprattutto organizzativi, a soddisfare i bisogni con un minore uso di energia e di risorse. La percorribilità di questa seconda via per fortuna è sotto gli occhi di tutti, purché la si voglia vedere.
Teniamolo presente la volta prossima che cantiamo Fratello sole e sorella luna