Timbuktu. L’Islam è un’altra cosa. In margine a un film. Bellissimo

Immagine: un fotogramma del film Timbuktu del regista Abderhamane Sissako

C’è un film – bellissimo – da vedere: Timbuktu, di Abde­rha­mane Sis­sako, un regista della Mauritania. Racconta le sorti di un villaggio del Mali dove un giorno arrivano le milizie jihadiste che impongono la shaaria alla popolazione locale: niente calcio e divertimenti, niente musica e sigarette, le donne devono man­te­nere il capo e le mani coperte, anche quando vendono il pesce. Ridere è peri­co­loso e gli adul­teri sono puniti con la lapidazione.

DOV’È DIO IN TUTTO QUESTO?

Il film, che nei giorni scorsi ha vinto sette Cesar ed è stato candidato agli Oscar, si ispira ad una storia vera, raccontata da un video diffuso dagli stessi giustizieri che mostrava l’ esecuzione di un uomo e di una donna lapidati per aver avuto figli senza essere sposati, lapidazione avvenuta di fronte al villaggio come monito per tutti. Un fatto, tra i molti, passato nel silenzio dell’occidente, pronti ad occuparsi del continente africano solo quando vengono rapiti europei o nordamericani.  Il regista – con una fotografia  magnifica –  entra nelle pieghe di un villaggio dai ritmi antichi  e lenti ma aperto sul presente (la mucca preferita si chiama GPS, la figlia del pastore tuareg ha un telefonino, i ragazzi parlano di Messi e di Zidane e tra gli esaltati c’è un ex rapper) ma, ancora di più, entra nella vita della comunità mussulmana e mostra, in modo netto e inequivocabile, quanto l’intolleranza praticata dagli zelanti dello jihad (che in arabo vuol dire, letteralmente, “sforzo”) in realtà sia un tumore all’interno dell’Islam stesso. Uomini venuti da fuori, che non comprendono la lingua della popolazione locale, le cui regole, ottuse ma imposte in nome di Dio, obbligano i ragazzi a ritrovarsi al campetto e fare una partita di calcio senza pallone: mimano cross e passaggi, punizioni e azioni in area. Esultano quando uno di loro finge di segnare e sono prontissimi a smettere non appena all’orizzonte si profila la solita moto su cui viaggiano i guardiani della virtù.

QUESTO NON È ISLAM

Dov’è Dio in tutto questo?, chiede l’imam a chi ha osato entrare nella moschea armato e a disturbare in questo modo la quiete degli uomini che pregano e pensano di imporre il diritto attraverso la forza e la repressione. Domanda che non ha risposta. Come non ha risposta l’invito dell’imam alla tolleranza e al rispetto, nella convinzione che l’unico “sforzo” possibile per un mussulmano autentico sia di tipo spirituale e interiore.

Mi è capitato, parecchie volte, di viaggiare in paesi a quasi totalità mussulmana. Ho sempre incontrato uomini e donne capaci di ospitalità e di compassione, testimoni di una fede diversa dalla mia ma che ho sentito, in molti casi, profonda e sincera. Non voglio apparire ingenuo, conosco le sfide a cui l’Islam è chiamato ad affrontare: un’esegesi storico-critica del Corano, il confronto con la modernità, il processo di integrazione nella nostra società plurale, la denuncia chiara di quanti deformano, con la violenza, l’immagine più autentica della fede islamica. Ma non dobbiamo confondere la violenza dell’Isis o di chiunque altro con l’Islam. Il film mostra come gli ortodossi guardiani portino dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Trasformano, in peggio, la vita di donne e uomini. Non dimentichiamolo. Mi tornano spesso in mente le parole di Christian de Chergè, superiore della fraternità di Thibirine, in Algeria, ucciso con altri sei confratelli nella primavera del 1996: “Tutto ciò che si può commettere un po’ ovunque o dire o credere in nome di un Islam duro e incontestabilmente offensivo, io dico semplicemente che quello non l’Islam di Dio”. Perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano – l’ha ricordato recentemente papa Francesco – “si oppongono ad ogni violenza”.