I turbanti colorati dei sikh e le molte altre religioni nella nostra terra. Un decalogo per vivere bene insieme

Lo spettacolo che sabato scorso si è presentato di fronte ai bergamaschi era da lasciare senza fiato. Migliaia di turbanti di tutti i colori, abiti sgargianti, odori e sapori di un altro mondo. Carri pieni di ghirlande di fiori colorati preceduti da fedeli a piedi nudi che fra musiche e preghiere pulivano con scope la strada. Quasi cinquemila indiani della comunità sikh (e non sich come si leggeva sull’ordinanza del Comune di Bergamo relativa al divieto di sosta nelle vie di passaggio del corteo…) si sono ritrovati davanti agli ex Ospedali Riuniti in occasione del Vaisakhi, la festa che oltre  a segnare l’inizio della primavera e la stagione del raccolto ricorda la nascita di questa religione avvenuta nel Punjab – una regione oggi divisa tra il Pakistan e l’India –  nel 1469. Il fondatore, Nanak, induista curioso dell’Islam e del sufismo, dopo un’esperienza mistica, attraversa paesi e nazioni dicendo che Dio gli è apparso chiedendogli di insegnare che “davanti a Lui non c’è indù, non c’è mussulmano” ma soltanto carità, servizio e preghiera. Stabilitosi alla fine a Kartapur, raduna un buon numero di discepoli (in lingua punjabi sikh).

Bergamo è una delle provincie italiane con il maggior numero di sikh, uomini e donne che vivono nella Bassa per lo più occupati in agricoltura, giunti dall’India dopo il massiccio esodo della metà degli anni ottanta del secolo scorso, conseguenza dei fatti di sangue che molti ricordano: l’Operazione Blue Star e l’attacco al Tempio d’Oro di Amritsar, dov’erano asserragliati i terroristi guidati da Sant Jarnail Singh Bhindranwale, sostenitori della creazione di uno Stato sikh indipendente, il Khalistan; lo choc di tutta l’opinione pubblica sikh (anche della gran parte avversa ai terroristi) per la profanazione del Tempio operata dall’esercito indiano; l’omicidio del Primo Ministro Indira Gandhi per mano delle sue guardie del corpo sikh; la feroce ‘caccia al sikh’ scatenata dagli hindu a Delhi per vendicare la morte di Indira; la guerra civile, gli attentati terroristici e la dura repressione che lacerarono il Punjab fino alla seconda metà degli anni Novanta.

UNA TERRA IN RAPIDA TRASFORMAZIONE

Ciò che è avvenuto sabato è il segno manifesto dei cambiamenti che la nostra terra, insieme al resto del Paese, ha avuto negli ultimi decenni. Un fenomeno – quello dell’arrivo di uomini e donne di fedi e di confessioni diverse – che ha trovato impreparato gran parte della società italiana e di cui ora si comincia ad avere percezione. Alcuni dati aiutano a capire meglio di tante parole come sia cambiate l’Italia.  Per stare ai sikh, i loro templi, negli ultimi cinque anni, sono arrivati a 37.  I luoghi di culto buddisti sono 160. Moschee e centri culturali islamici hanno raggiunto quota di 655. Anche con le diverse confessioni cristiane la crescita è tumultuosa. In Italia le parrocchie ortodosse sono 355 (erano 20 nel 2000) rappresentative delle varie nazionalità dell’Est Europeo e di una “popolazione” di credenti che raggiunge la cifra di un milione e mezzo. Il 75% di queste parrocchie è ospitato presso le parrocchie cattoliche o in cappelle in disuso. L’81% dei preti ortodossi è sposato e ha un età tra i 30 e i 45 anni. I Testimoni di Geova e i Pentecostali crescono in maniera esponenziale soprattutto nelle regioni meridionali. La galassia delle chiesa neopentecostali africane è composta da 800 denominazioni di cui 350 nigeriane e 280 ghanesi (concentrate dove è maggiore la presenza lavorativa delle comunità di riferimento). Insomma, ad eccezione della presenza ebraica che diminuisce in modo costante e si attesta a circa 25.000 credenti, sempre più il nostro Paese è segnato da un mosaico di fedi.

UN DECALOGO PER UN DIALOGO CHE VINCA LA PAURA

Brunetto Salvarani, da anni impegnato attivamente  nel dialogo interreligioso, propone un decalogo. Cosi articolato:  1. Un incontro tra persone e non tra strutture o massimi sistemi 2. A partire dalle cose concrete e quotidiane (sport, musica, arte) 3. Difendere le identità senza idolatrarle 4. Partire dalle cose che abbiamo in comune 5. Non nascondere le differenze 6. Accogliere i racconti delle persone 7. Avere la pazienza dell’ascolto 8. Unire le parole e i gesti 9. Avere un orizzonte “glocal” 10. Essere consapevoli che il dialogo arricchisce vicendevolmente. Esso è un processo di umanizzazione che nasce dalla curiosità ed è possibile solo attraverso la spiritualità.

Piccoli passi, possibili e praticabili, per decostruire (non demonizzare o negare) l’inevitabile paura – alimentata ad arte da parte di alcune forze politiche – che i cambiamenti in atto pongono in gioco. Con una certezza, dichiarata a suo tempo con la solita lucidità dal cardinal Martini: “Se vuoi entrare in un altro mondo religioso, hai bisogno di un amico che ti accompagni. Questo non ti allontanerà dal cristianesimo, anzi, renderà il tuo essere cristiano più profondo. Non avere paura dello straniero.” Non dimentichiamolo troppo in fretta.

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