Frère Roger, il fondatore di Taizé, moriva dieci anni fa. Per non dimenticare

Foto: Frère Roger Schutz, il fondatore della comunità di Taizé

Dieci anni fa, la sera del 16 agosto 2005, durante la preghiera serale dei vespri, frère Roger Schutz, fondatore e priore della comunità di Taizè, venne ferito a morte da una donna. L’assurda aggressione è stata compiuta davanti a 2500 persone, per lo più giovani, riunite nella Chiesa della Riconciliazione.
Frere Roger, pastore protestante di origine svizzera, è stata una delle figure fondamentali dell’ecumenismo e della spiritualità del Novecento.
Lo vogliamo ricordare con questo dialogo che Daniele Rocchetti, qualche anno prima della morte, ebbe con il priore di Taizè.

Frère Roger, mi può raccontare la storia della comunità?

Quando ero giovane, mi stupivo nel vedere dei cristiani che, pur facendo riferimento a un Dio d’amore, sprecavano tante energie nel tentativo di giustificare le loro opposizioni. E mi dicevo: per comunicare il Cristo, esiste forse una realtà più trasparente di una vita donata, nella quale, giorno dopo giorno, si concretizza la riconciliazione? Allora ho pensato che era essenziale creare una comunità di uomini decisi a donare tutta la loro vita e che cercano continuamente di riconciliarsi. Nell’estate del 1940 mi sono detto: “La guerra è scoppiata e c’è una grande sofferenza. È il momento di iniziare a realizzare ciò che nel cuore da tempo”. Così, da Ginevra, mi sono messo in viaggio per la Francia. Partito in bicicletta, sono arrivato a Cluny, dove il notaio mi ha indicato una casa in vendita a Taizé. Era allora un villaggio senza strade asfaltate, né telefono, né acqua corrente. Non c’era un prete fin dai tempi della rivoluzione. Quando sono arrivato, sono rimasto meravigliato dall’accoglienza cordiale da parte di alcune persone anziane. Una di esse mi invitò a pranzo e mi disse: “Resti qui, siamo così soli e gli inverni sono tanti lunghi…” E così ho scelto Taizé. Di lì a poco, avendo saputo dove vivevo, alcuni amici mi hanno chiesto di nascondere dei rifugiati che fuggivano dalla parte della Francia che era stata occupata. Sapevo che per creare una comunità non dovevo aver paura di essere presente là dove la prova era più dura.

È rimasto a lungo da solo a Taizè?

Per due anni, dal 1940 al 1942. Alla fine del ’42 mi trovavo per un breve soggiorno a Ginevra quando l’11 novembre in Francia sopraggiunse l’occupazione totale. Fra l’11 e il 12 novembre la Gestapo era arrivata anche nella mia casa. Non mi è stato possibile tornare a Taizé fino alla liberazione, nell’autunno del 1944. Nel frattempo avevo incontrato i miei primi fratelli.

Quali sono le intuizioni maturate durante il suoi cammino?

Ho sempre portato con me il ricordo di mia nonna materna, la quale, ai tempi della prima guerra mondiale, rimasta vedova, viveva nel nord della Francia. Aveva avuto tanto coraggio da accogliere in casa alcuni rifugiati, sotto i bombardamenti. Alla fine della guerra, intorno al 1918, era animata dal desiderio che nessuno dovesse trovarsi a vivere quello che aveva vissuto lei. Pensava che una riconciliazione tra i cristiani potesse creare uno spazio di pace e magari impedire una nuova guerra in Europa. Mia nonna discendeva da una famiglia di antica tradizione evangelica. Per realizzare, in sé stessa e nell’immediato, una riconciliazione, si mise a frequentare la Chiesa cattolica. Le due scelte tanto realistiche di questa donna anziana hanno lasciato un’impronta in tutta la mia vita. Mia nonna aveva corso dei rischi in favore dei più disperati di quel tempo e per favorire la pace in Europa aveva riconciliato in se stessa la corrente di fede evangelica delle sue origini con la fede della Chiesa cattolica. In questo modo ha scoperto intuitivamente una chiave della vocazione ecumenica.

Chi sono gli uomini di speranza che hanno aiutato e sostenuto la comunità?

Di nuovo penso a un figlio di contadini poveri del bergamasco divenuto Papa Giovanni. Giovanni XXIII fu per noi il rivelatore del mistero della Chiesa. Venendo a Taizé nel 1986 papa Giovanni Paolo II ha iniziato col ricordare l’amore che Giovanni XXIII aveva avuto per noi: “Vorrei esprimervi il mio affetto e la mia fiducia con quelle semplici parole con cui Papa Giovanni XIII, che vi amava tanto, salutava un giorno frère Roger: “Ah! Taizé, quella piccola primavera!” La nostra ultima udienza con Giovanni XXIII ebbe luogo nel 1963. Eravamo in tre fratelli. Colpito da un tumore ormai avanzato, il Santo Padre sapeva che la sua morte era vicina. Coscienti del fatto che non l’avremmo più rivisto, ci tenevamo ad ascoltare un testamento spirituale per noi. Gli abbiamo posto due domande: una sull’avvenire di Taizé e l’altra sul nostro posto nella Chiesa. Riguardo al futuro della nostra comunità il Papa ci rispose che eravamo già nel divenire della Chiesa. E Giovanni XXIII non voleva che ci preoccupassimo del nostro posto. La Chiesa è costituita da cerchi concentrici sempre più grandi, precisò, facendo con le mani dei gesti circolari. Potevamo continuare il cammino su cui ci trovavamo senza darci troppo pensiero. Dopo la sua morte, per due volte, abbiamo ospitato il suo fratello più giovane, Giuseppe Roncalli, con un nipote, Fulgenzio. Questo vecchio osservava sempre tutto, attentamente. Una sera disse: “Ciò che uscirà da Taizé, è mio fratello che l’ha cominciato”. Era vero: questo contadino bergamasco aveva compreso fino a che punto suo fratello Giovanni XXIII ci aveva segnato per sempre.

Come aiutare i giovani a cogliere il cuore del messaggio del Vangelo?

Oggi molti giovani attraverso il mondo si sentono scoraggiati. Vedono il loro futuro incerto. Ce ne sono anche che durante l’infanzia sono stati segnati dagli abbandoni umani. Se è vero che certuni restano paralizzati dalle disillusioni, è ancor più vero che ovunque sulla terra ci sono dei giovani inventivi, creatori. Sono capaci di svegliare al senso della vita quanti si erano abbandonati allo scetticismo, allo scoraggiamento. Per questo, se occorresse, andrei sino ai confini del mondo per dire la mia fiducia nelle giovani generazioni. Con i miei fratelli, vedendo sulla collina di Taizé tutti questi volti di giovani, capiamo che giungono con delle domande vitali: quale sarà il mio futuro? Come trovare un senso alla mia vita? Con quanti accogliamo, vorremmo cercare come trovare la fiducia andando ad attingere alle sorgenti del Vangelo e come assumere delle responsabilità una volta di ritorno a casa.
Desideriamo essere per loro degli uomini di ascolto e non dei maestri spirituali.

Come mai ai giovani voi offrite la preghiera e il silenzio? Forse perché queste realtà mancano oggi nel contesto culturale e nelle comunità?

Dal profondo dell’umanità sale una segreta aspirazione. Anche se presi negli anonimi ritmi dei programmi e degli orari, molti nostri contemporanei nutrono l’implicito desiderio di una realtà essenziale, di una vita interiore. Nulla permette tanto una comunione con il Dio vivente quanto una preghiera comune meditativa che conosce questo culmine: il canto che si prolunga e che continua nel silenzio del cuore anche quando si è soli. Quando il mistero di Dio è reso percettibile dalla bellezza semplice dei simboli, quando non è soffocato dal sovraccarico di parole, allora la preghiera comune, lungi dal distillare monotonia e noia, ci apre alla gioia del cielo sulla terra.
Non lo si dirà mai abbastanza: chi cammina al seguito di Cristo sta vicino a Dio e vicino agli altri, senza separare preghiera e solidarietà umane. Alleviare le sofferenze sulla terra è stare al cuore del Vangelo. Quando calmiamo le prove degli altri, è il Cristo stesso che incontriamo. Ce lo dice nel Vangelo: “Ciò che fate al più piccolo dei miei fratelli, è a me, il Cristo, che lo fate”. Fin dal 1940 era chiaro che ci sarebbero sempre state nella vocazione della nostra comunità queste due aspirazioni: camminare nella vita interiore attraverso la preghiera personale e la bellezza della preghiera comune, e assumere delle responsabilità per rendere la terra più abitabile.

Come giudica l’attuale situazione dell’ecumenismo?

Ecumenismo significa vocazione alla riconciliazione. L’ecumenismo ha dato origine a notevoli dialoghi e scambi, ma rimane, oggi, domani e sempre, la parola di Cristo nel Vangelo: “Va’ prima a riconciliarti”. “Va’ prima” e non “Rimanda a dopo”. Continuando a rinviare la riconciliazione a più tardi, senza rendersene conto l’ecumenismo potrebbe logorarsi e mantenere delle speranze illusorie.

Come dovrebbe porsi la Chiesa nel futuro?

Vorrei rispondere citando alcune parole del beneamato Papa Giovanni XXIII alle quali mi capita spesso fare riferimento. Queste parole stupiscono per la loro forza intuitiva e permangono così attuali: “Che la Chiesa preferisca ricorrere alla medicina della misericordia, piuttosto che alle armi della severità”.

Certuni dicono che c’è una profonda crisi di valori nella nostra società. Frère Roger, che cosa ne pensa?

Nelle società umane si producono rapide evoluzioni e può capitare che alcuni si sentano come persi. Perciò desidero citare ancora una volta Giovanni XXIII. Mi piace ricordare alcune parole che questo Papa diceva all’apertura del Concilio Vaticano II. Invitava a non ascoltare i profeti di sventura: “Nell’attuale situazione della società, questi profeti di sventura vedono solo rovine e calamità; dicono che la nostra epoca è profondamente peggiorata, come se una volta tutto fosse stato perfetto; annunciano catastrofi come se il mondo fosse vicino alla fine”.

Il cuore di Taizè è dato dalla Chiesa della Riconciliazione e chi sale sulla collina trova migliaia di giovani in silenzio e in preghiera. Spesso, invece, si sente dire della difficoltà odierna a pregare. Cosa ne pensa?

La fede non consiste necessariamente nel provare un sentimento. Alcuni non provano niente, o quasi niente e Cristo rispetta i nostri atteggiamenti interiori. La fiducia della fede sta nel dire sì all’amore di Cristo, anche se dentro di noi c’è come un grande silenzio. A coloro che pensano di non saper pregare, Cristo risponde: prego io in te. E ci risponde anche: non inquietarti. Lui sa bene che nell’essere umano esiste l’inquietudine, più o meno forte. E allora, nel Vangelo, ci dice: “Con la tua inquietudine non potrai aggiungere neppure un solo giorno alla tua vita…”. L’importante, nella fede, è vivere l’oggi. E Dio già si prende cura del domani. È quindi un atto di libertà il rimettere a Dio le proprie inquietudini nella preghiera. Tale atto di libertà è come un gettarsi in Dio. E viene il giorno in cui ognuno potrà dire a Gesù Cristo: anche se non sento la tua presenza dentro di me, ora capisco che tu eri sempre con me e che sarai sempre presente.

Dopo molti anni di comunione e di condivisione, quale immagine ha di Dio?

Se Gesù non fosse vissuto sulla terra, Dio sembrerebbe lontano o addirittura irraggiungibile. Ma con la sua venuta in mezzo a noi Gesù ha lasciato trasparire chi fosse Dio. Allora la fiducia in Dio, la fede, diventa una realtà molto semplice, tanto semplice che chiunque potrebbe accoglierla. E’ come uno slancio mille volte ripreso. A volte può succedere che la fiducia in Dio appaia come oscurata. Il fatto è che nel cuore dell’uomo può crearsi una paura segreta di Dio. Questa paura ci blocca. Uno degli ostacoli più grandi alla fede sta nel credere che Dio punisca l’essere umano. È quindi essenziale ricordarsi le parole di San Giovanni: “Dio è amore”. È solamente amore e nient’altro. Non siamo noi ad aver amato Dio, ma è lui che ci ha amati per primo. Cristo non chiama nessuno al tormento interiore. Egli ama ogni essere umano, senza eccezioni. Risuscitato, dice ad ognuno: “Sono con te. Non ti abbandonerò mai e poi mai”.

Quale sarà il futuro di Taizé?

In comunità, con i miei fratelli, cerchiamo, viviamo lo scambio, c’interroghiamo. Sovente ci sorprendiamo a farci questa domanda: che cosa s’attende Dio da noi? Non sono inquieto per il futuro della comunità. Il fratello che mi succederà è già stato scelto. Ho una profonda fiducia nei miei fratelli, sono uomini di pace interiore e riconciliazione.

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