Quella irresistibile tentazione di giudicare: in nome della legge siamo pronti ad annientare l’altro. Ma il Vangelo non dice questo

So adesso che una giustizia nuova, attenta al caso singolo e che inventa su misura la sentenza, muove dalla misericordia per l’offeso, perciò riesce ad essere spietata. la misericordia è implacabile e non si fa reprimere. È all’inizio essenziale nella formazione di un carattere rivoluzionario
(Erri De Luca)

«Borbottavano i farisei e gli scribi, dicendo: ‘Costui è teso ad accogliere i peccatori e mangia con loro!’» (Lc 15,2)
«Scribi e farisei conducono a Gesù una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: ‘Maestro, questa donna è stata sorpresa nel fatto stesso mentre faceva adulterio. Ora nella legge Mosè ordinò di lapidare quelle così e tu che dici?’» (Gv 8,3-5)

È dal piedistallo della propria presunta giustizia che piovono sentenze di esclusione e condanna nei confronti di quella parte di umanità, dalla quale si decide di prendere le distanze, identificandola esclusivamente ed assolutisticamente col male che ha compiuto. In nome della legge e della sua osservanza si esclude e annienta l’uomo, la donna. La scelta a cui il Vangelo ci pone di fronte è sempre quella tra legge e persona, tra l’osservanza esteriore e l’essere ‘tesi’ nell’accoglienza incondizionata del volto dell’altro/a.
Il borbottio di scribi e farisei d’allora è simile a certe lamentele dei contemporanei ‘giusti’ dalla nuca rigida che faticano a cogliere quei germogli di novità che affiorano dalle coscienze profetiche di chi vive il Vangelo con autenticità e freschezza, con libertà e apertura ai segni dei tempi, sollecitando il superamento della logica della condanna, del giudizio e della separazione netta tra buoni e cattivi.
Come incipit del suo capitolo 15, scrigno della sua narrazione e “Vangelo nel Vangelo” (nel quale ci sono regalate le tre parabole cosiddette della misericordia: i ritrovamenti della pecora e della moneta perdute e la vicenda del Padre e i suoi due figli), Luca pone quella mormorazione degli uomini dabbene, dei giudici dalle virtù taglienti. E ci offre sin da subito la cifra di interpretazione, la possibilità nuova – squisitamente evangelica – di saper scorgere dove si annida realmente il peccato da cui Gesù intende liberarci. Esso non sta tanto nella trasgressione o nell’allontanamento del figlio minore dalla casa paterna, non sta (per rifarci ad un altro testo evangelico che incontreremo nel cammino domenicale di questa quaresima e che pare appartenere originariamente alla stesura stessa di Luca, salvo poi aver trovato fortunosamente ‘ospitalità’ nella narrazione giovannea) nella colpevolezza della donna adultera condotta in mezzo alla cerchia degli uomini retti del sacro; bensì il peccato, da cui occorre davvero invocare la liberazione, cova particolarmente nelle intenzioni e nei pensieri di quei cuori di pietra, in quelle mani piene di sassi, in quelle bocche colme di accuse e sentenze esatte. Il peccato sta nel sentirsi giusti (“se foste ciechi non avreste peccato! Ora invece voi dite: vediamo; il vostro peccato rimane”- Gv 9,41) e in virtù di questa alterigia ergersi ad esecutori inflessibili di condanne.
Ciò che Gesù intende smascherare è questo atteggiamento disumano che toglie alle persone colpevoli la loro dignità, l’assimilazione del male con il malfattore. Colei che viene sorpresa in adulterio è ritenuta irrimediabilmente ‘adultera’, per Gesù è ‘donna!’; colui che si è allontanato da casa dilapidando i beni con le prostitute lo si definisce un ‘peccatore’, per Gesù è ‘figlio del Padre e fratello di ogni uomo’. L’agire di Gesù – coi suoi gesti prima ancora che con le sue parole – è costantemente teso al ristabilimento di quell’immagine divina originariamente impressa in ogni creatura; la sua spinta è tenacemente orientata a ridare dignità al volto dello scomunicato e dell’escluso.
È un cambio di sguardo quello che viene costantemente proposto dalla prassi evangelica: è il superamento definitivo del passato. «Questa libertà del Cristo che non guarda il peccato con le misure della legge ma guarda la persona, la creatura vivente, la libera dalla sua identità col peccato e la restituisce alla vita è la rivelazione del senso profondo della conversione. Essa è una liberazione non soltanto dal peccato ma dalla identità di noi stessi che la legge ci infligge. Gesù è venuto a distruggere la meccanica diabolica del passato – che ci chiude in noi stessi e condanna l’altro – e ad aprire la coscienza al futuro, alla responsabilità, alla invenzione della vita. Convertirsi vuol dire recuperare il nostro futuro» (E. Balducci). È solo alimentando fiducia nella vita, una fiducia creativa e intraprendente, dinamica e libera (“Neppure io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più!” dice Gesù a quella donna salvata dalla lapidazione imminente) che si aprono orizzonti nuovi; solo così la vita può continuare a germogliare, tracciando strade nel deserto delle nostre paure e dei nostri fallimenti, immettendo acqua nuova nelle steppe sterili del giudizio e della condanna.
È la vita, la vita del peccatore ciò che sta a cuore a Dio: “non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva” (Ez 33,11). Volontà di Dio è la vita dentro un continuo processo di conversione, di cambiamento radicale dei propri atteggiamenti sia interiori che esteriori. E non stiamo parlando solo della conversione dei peccatori ma anzitutto della ‘conversione dei buoni’, di quanti si arroccano nella difesa legalistica di un dio (idolo) fatto ad immagine e somiglianza della propria volontà di potenza, affermazione e controllo. Ciò che c’è da convertire è pertanto la visione stessa di Dio; non si tratta di declamare se si crede o no, ma di chiarire in quale Dio cerchiamo di credere! Nel dio del capretto (ricompensa meritoria delle buone opere del giusto) o nel Dio del vitello grasso (gratuità smisurata, elargita verso colui che era perduto ed è stato ritrovato)? Nel dio contabile, esecutore inflessibile di ordinamenti istituiti o nel Dio prodigo che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45) ed effonde la sua misericordia perché la nostra miseria possa sentirsi amata e liberata? Amati senza giustificazione e al di là dei nostri meriti, dunque, e per grazia da un Dio che è più grande del nostro stesso cuore che spesso ci accusa (1Gv 3,20).
Quell’uomo-padre della parabola è in continua uscita: nella sua corsa verso il figlio minore che ha deciso di tornare e nel tentativo disperato di convertire il risentimento del maggiore. Dio è in continua uscita da sé, in cerca dell’uomo (da sempre…); Camminatore dai passi inquieti perché segnati dalla nostalgia della Sua immagine in noi. Un esodo ininterrotto.
Si tratta, pertanto, di lasciarsi semplicemente trovare da questo cercatore instancabile dell’umano che è in noi; di farsi abbracciare teneramente e tenacemente da una misericordia che non è indebolimento (o messa tra parentesi) della giustizia giacché: “è proprio la misericordia di Dio che porta a compimento la vera giustizia” (udienza di Papa Francesco del 3 febbraio 2016).