L’eloquente silenzio di Papa Francesco ad Auschwitz

È stata una visita carica di significato quella che Papa Francesco ha compiuto nel campo di concentramento di Auschwitz, a Oswiecim, a circa 70 chilometri da Cracovia dove si sta svolgendo la Giornata mondiale della Gioventù.

In silenzio, col volto rivolto verso il basso in segno di rispetto nei confronti di oltre quel milione di ebrei europei, 23mila rom, 15mila prigionieri di guerra sovietici, insieme a decine di migliaia di cittadini di altre nazionalità che qui hanno trovato la morte, il Papa alle 9,15 varca lentamente il cancello sovrastato dalla scritta beffarda “Arbeit match frei”, “il lavoro rende liberi”. Entrato, il Santo Padre, sale sulla vettura elettrica per dirigersi verso le diverse zone del campo. Si ferma ancora da solo e sempre in silenzio su di una panchina di fronte alle camerate, dove erano reclusi gli internati, spersonalizzati con le loro logore divise a righe e i capelli rasati, dove resta per oltre un quarto d’ora assorto, a tratti con gli occhi chiusi, a mani giunte in grembo.

Bergoglio, terzo Pontefice dopo Giovanni Paolo II (7 giugno 1979) e Benedetto XVI (28 maggio 2006) a varcare la soglia del più grande campo di concentramento mai realizzato dal nazismo, che svolse un ruolo fondamentale nel progetto di “soluzione finale della questione ebraica”, eufemismo con il quale i nazisti indicarono lo sterminio degli ebrei, ha avuto modo di comprendere appieno “se questo è un uomo”, per citare il titolo del celebre libro di Primo Levi.

Prima di riprendere il percorso, a bordo di una piccola vettura aperta, il Santo Padre raggiunge il Blocco 11 e la piazza dell’appello, quella delle esecuzioni, si avvicina a una forca di ferro, dove venivano impiccati i prigionieri e bacia uno dei pali. Incontra undici sopravvissuti e parla con loro uno a uno. Il più anziano gli porge una candela con la quale il Papa accende una lampada davanti al muro della fucilazione, per poi continuare a pregare in silenzio. Francesco entra nella buia cella di San Massimiliano Kolbe, il francescano che offrì la propria vita al posto di un altro prigioniero già condannato, e vi resta a lungo, ancora da solo, in ginocchio.

Esattamente 75 anni fa, il 29 luglio, era stata pronunciata la condanna a morte di Kolbe. La tonaca del Pontefice sembra illuminare il luogo oscuro dove sono ancora visibili i graffiti iscritti sui muri dai detenuti. In questo posto, eterno simbolo del dolore dell’uomo, i canti della meglio gioventù riunita a Cracovia in attesa del ritorno del loro Padre e le sirene delle auto della polizia della città polacca cinta d’assedio dalle forze dell’ordine sembrano lontane migliaia di chilometri. Il tempo si ferma.

“Io vorrei andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, salvo quelle necessarie: da solo entrare, pregare, e che il Signore mi dia la grazia di piangere”, aveva detto Bergoglio settimane fa. Silenzio e preghiera, dunque per il Papa in questa giornata di sole in un posto che ha visto l’inimmaginabile, il buio e il cuore nero degli uomini. Francesco si sposta all’attiguo campo di Birkenau, chiamato anche Auschwitz II, a tre chilometri di distanza. Nell’area, nel periodo della “soluzione finale”, c’erano tre campi: due costruiti per lo sterminio degli ebrei, Auschwitz e Birkenau, e un campo di lavoro a Monowitz (Auschwitz III).

Il Santo Padre visita un monumento di vittime delle nazioni, alla presenza di un migliaio di ospiti, passa davanti alle targhe commemorative nelle diverse lingue, deponendo una candela accesa. Incontra 25 “giusti delle nazioni”, persone che hanno messo a rischio anche la propria vita per aiutare gli ebrei in quel momento di persecuzione. Qui il rabbino capo di Polonia, Michael Schudrich, canta in ebraico il salmo 129-130, il “De profundis”.

Papa Francesco scrive, in spagnolo, nel libro d’onore del lager: “Signore abbi pietà del tuo popolo! Signore, perdono per tanta crudeltà!”, ultimo atto di una visita, protagonista il silenzio, che ha parlato più di mille parole.