La scatola nera dei partiti. Aprirla o buttarla?

Il Parlamento sta discutendo se i partiti debbano essere o no sottoposti a regolamentazione per legge – l’ultimo progetto è quello dell’On. Richetti del PD – in attuazione dell’art. 49 della Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

DE GASPERI, TOGLIATTI, IL PCI, LA DC

All’epoca dell’Assemblea costituente, tutta la vecchia classe politica di origini liberali, diffidente dei partiti di massa, voleva un controllo pubblico della vita dei partiti. Nella gerarchia dei valori politici di De Gasperi il primo posto toccava alle istituzioni di tutti, poi al Parlamento, poi ai partiti. La vita politica ruotava attorno all’istituzione-Governo. Questo ordine di importanza veniva dalla democrazia liberale, che il cattolico De Gasperi aveva praticato fin dalla sua partecipazione al parlamento di Vienna. Era pertanto in controtendenza rispetto alla storia politica degli ultimi ventincinque anni, che aveva visto trionfare il partito-stato del fascismo. Nella sua DC non mancavano pulsioni partitiste, segnatamente nella generazione cattolica che si era formata politicamente sotto il fascismo. Quanto al PCI, il modello sovietico del primato/fusione del partito su/con lo Stato era del tutto condiviso. Perciò, una volta approvato l’art. 49, non se ne fece più nulla. Togliatti era contrario alla regolamentazione per legge della vita interna dei partiti, agitando come spauracchio un possibile ritorno della politica totalitaria che il fascismo nascente aveva realizzato verso il pluripartitismo. Alla luce della “democrazia progressiva” la pluralità dei partiti era necessaria, tenendo presente che “i partiti sono la democrazia che si organizza”. Così, già a partire dalla morte di De Gasperi, si vennero costruendo “il partito-stato” e la “repubblica dei partiti”. Per i settant’anni successivo l’articolo della Costituzione è rimasto inattuato.

ASSOCIAZIONI PRIVATE CON UN IMMENSO PESO PUBBLICO

Eppure, l’anomalia italiana è enorme: i partiti italiani sono associazioni private con un potere pubblico immenso, che sceglie il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale (i membri laici), i Sindaci, i Presidenti delle Regioni, e decide le nomine in migliaia di Enti statali e para-statali. Perché regolamentare i partiti? Per realizzare il diritto dei cittadini a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”: iscriversi, avere accesso alle informazioni, decidere le modalità di selezione delle candidature. L’arrivo dell’Italicum rende la regolamentazione dei partiti ancor più urgente. Oggi i partiti sono una scatola nera, che i cittadini e gli stessi militanti non possono aprire. I partiti si autoregolano: chi usa le primarie, chi la Rete, chi il centralismo carismatico o correntizio. Dietro al progetto Richetti sta l’idea che i partiti siano i canali necessari dell’esercizio concreto della sovranità popolare. Democrazia “dei” cittadini “, non “dei “ partiti, ma neppure “senza” i partiti. Il fallimento dei partiti storici e nuovi sul terreno della democrazia interna e della trasparenza ha provocato l’insorgenza antipartitica e antipolitica: essere cittadini non vuol più dire, oggi, partecipare e governare, ma opporsi.

I CINQUE STELLE E L’UTOPIA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA

La nuova politica è lavacro radicale, è rivolta. Di qui, dunque, l’opposizione al progetto del M5S, che resta favorevole al solo controllo dei bilanci dei partiti, ma non vuole controlli sul carattere democratico e trasparente delle procedure decisionali. L’alibi: “non siamo un partito, siamo un movimento”. In realtà, il M5S ritiene che la democrazia non abbia più bisogno di intermediazione e di deleghe, perciò non ha più bisogno di partiti e di deputati senza vincolo di mandato. La Web-democrazia è autosufficiente, realizza l’agorà ateniese. Quella della democrazia diretta è un’antica utopia, nella quale gli individui si identificano con la “Volonté generale”. Rousseau ne fu il paladino, i Giacobini e Lenin i realizzatori. Rousseau dà il nome, non per caso, alla piattaforma informatica dei pentastellati, messa a punto dal defunto Gian Roberto Casaleggio. Il quale ha teorizzato che, al 2054, poiché “l’uomo è Dio, è ovunque, è tutti, conosce tutto”, l’unica politica che resterà è quella della conoscenza collettiva, “un unico flusso di coscienza”, al quale l’informatica permette per la prima volta di autorappresentarsi. Un alveare intelligente. Intanto, in questo 2016, dentro questa miscela di apocalissi e di rabbia contro la forma-partito, al M5S non interessa leggere la scatola nera dei partiti, la vuole buttar via. Solo che il partito-M5S non ha affatto risolto al suo interno il dilemma che il defunto Casaleggio aveva formulato così: “la democrazia diretta, con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana, in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore?”. Il M5S sembra più vicino alla seconda ipotesi: funziona come il Panopticon di Jeremy Bentham, una struttura carceraria in cui “l’uno” vede tutti e “i tutti” possono vedere soltanto “l’uno”. Si deve constatare che quasi tutti i partiti “nuovi”, di centro-destra e di sinistra radicale, si sono messi furbescamente in coda, come le pecore di Mr. Panurge, dietro il M5S. Un annegamento collettivo.