Unità e identità, categorie per interpretare l’Europa di oggi; concretezza e “sogno” quelle per intravvedere l’Europa di domani. In occasione delle celebrazioni per il 60° dei Trattati istitutivi della Cee (Comunità economica europea) e della Ceea (Comunità europea dell’energia atomica, o Euratom), il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, si sofferma ad analizzare gli ostacoli sul percorso dell’integrazione comunitaria e a considerare le opportunità che essa offre. Al contempo guarda avanti con – dice – “l’ottimismo della ragione”. Eletto a gennaio alla massima carica dell’Assemblea, Tajani, giornalista di professione, ha un lungo curriculum europeista come deputato a Strasburgo (dal 1994), con un lungo intermezzo da commissario Ue (2008-2014), prima ai trasporti e poi all’industria.
Presidente, il 25 marzo in Campidoglio i leader dei Paesi Ue e i responsabili delle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, ricorderanno il significato storico dei Trattati di Roma. Quali insegnamenti giungono dal passato, utili per affrontare le sfide presenti?
«Ritengo che sia essenziale comprendere quanti risultati si sono raggiunti in questi sessant’anni. L’Europa comunitaria ha contribuito a costruire una pace duratura, ad assicurare democrazia e libertà, rispetto dei diritti, benessere materiale. Si tratta di un patrimonio prezioso, che non va mai dato per scontato. Le celebrazioni di questi giorni possono aiutarci a comprendere il valore dell’unità, del procedere assieme, del condividere i problemi per cercare risposte comuni. Esattamente come ci hanno testimoniato i “padri fondatori”».
Ma i nazionalismi avanzano e l’opinione pubblica, impaurita dalla crisi economica e dalla globalizzazione, invoca spesso nuovi muri. Brexit è un chiaro segnale…
«Io anzitutto distinguerei tra amor di patria e nazionalismi. Il primo è un atteggiamento positivo: significa amare la propria terra, la propria gente, la cultura e la lingua nazionale. Tutto questo fa parte della nostra identità, alla quale non ci è chiesto di rinunciare per far parte dell’Unione europea. Invece i nazionalismi parlano il linguaggio delle paure, delle chiusure e, appunto, fan sorgere i muri – psicologici o materiali – che vediamo riapparire in diversi Paesi. Sappiamo che i nazionalismi non hanno mai portato nulla di buono:
la storia europea è contrassegnata da tragedie e guerre emerse dai nazionalismi. Noi invece dobbiamo camminare insieme, pur senza rinunciare alle nostre identità e specificità. Del resto siamo chiamati a confrontarci con giganti del calibro di Stati Uniti, Cina, Russia: se, come Paesi europei, non siamo uniti finiamo per essere marginali e travolti».
Insieme, dunque: per perseguire obiettivi comuni? Lei ha più volte segnalato l’urgenza di creare lavoro per i giovani, di affrontare il nodo dei flussi migratori, di dare sicurezza ai cittadini. L’Ue può essere un valore aggiunto in questo senso?
«Certamente. Ritengo che lo sia in primo luogo per produrre quei risultati concreti che i cittadini europei ci chiedono. Pensiamo ai vantaggi del mercato unico o a quanti investimenti si possono realizzare con i fondi strutturali; e poi alla possibilità di far studiare i nostri giovani all’estero con Erasmus… In Italia abbiamo visto anche una Ue presente nelle regioni terremotate, per portare aiuti e finanziamenti per la ricostruzione. Ma c’è un secondo aspetto importante».
Quale sarebbe?
«Credo sia necessario anche continuare a coltivare il “sogno” europeo, specialmente per i nostri giovani. Un obiettivo alto che si fa crescere ogni giorno, attraverso politiche economiche che puntano allo sviluppo e all’occupazione, con progetti per l’istruzione e la cultura, con azioni che favoriscono l’incontro tra i popoli, con decisioni per far fronte all’accoglienza e all’integrazione dei migranti. Un sogno che nasce e si alimenta a partire da politiche efficaci realizzate secondo il principio di sussidiarietà».
Da tempo si riscontra una nuova attenzione, nelle sedi europee, al contributo che può giungere all’integrazione sociale e politica da parte delle comunità di fede, anche grazie al dialogo tra Ue e Chiese determinato dal Trattato di Lisbona. Lei cosa ne pensa?
«Il dialogo con le religioni è un pilastro essenziale per costruire l’Europa, per la loro presenza radicata nei territori, per la capacità delle Chiese di essere elementi vivi delle nostre società. Un riferimento particolare va peraltro riservato all’elemento giudaico-cristiano che caratterizza la storia europea. Non è un discorso confessionale, questo, bensì si colloca nella storia del continente, accanto al contributo della filosofia greca, del diritto romano, fino all’illuminismo e oltre».
Il 24 marzo i capi di Stato e di governo e i leader dell’Unione sono invitati in udienza in Vaticano. Il Papa “che viene dalla fine del mondo” si sta dimostrando attento alle vicende europee ed è intervenuto più volte sul tema.
«Sì, è vero. Papa Francesco ha fatto un bellissimo discorso, nel novembre 2014, al Parlamento europeo a Strasburgo. E poi ancora lo scorso maggio, in Vaticano, ricevendo il Premio Carlo Magno. Nei suoi interventi traspare la costante ricerca di un profilo europeo rinnovato pur nella fedeltà alle nostre radici; Bergoglio parla di Europa accostandole sempre il termine “speranza”. Il Papa richiama poi l’Ue a non lasciare indietro nessuno, ad aiutare gli ultimi e i poveri, ad accogliere i profughi, a sostenere la famiglia, a rispondere alle attese dei giovani. Sono richiami essenziali per la politica di questo nostro tempo».
Un’ultima domanda, a bruciapelo. Futuro dell’Ue: lei è pessimista o ottimista?
«Il mio è un ottimismo della ragione. L’Europa è l’orizzonte nel quale ci muoviamo. E senza l’Europa, oggi come oggi, non andiamo da nessuna parte».