Il referendum sull’autonomia. Domande forti, risposte deboli

Il referendum lombardo sull’autonomia è stato un successo o un fiasco? Utile o inutile? Roberto Maroni ha risposto a esigenze reali dei cittadini o ha solo voluto farsi un po’ di campagna elettorale a spese delle istituzioni?

Le risposte non sono è affatto blowing in the wind. La prima si trova nella grande partecipazione al voto. Hanno votato 3.022.101 di lombardi. Un flop? Se consideriamo la partecipazione ai referendum precedenti, non pare proprio. Certo, a quello del 4 dicembre del 2016 hanno partecipato 5.552.510 elettori, in un clima incandescente di mobilitazione politica; oggi le circostanze della mobilitazione politica e mediatica erano assai meno drammatizzate. Ma il 40% è rilevante. Che il 60% non abbia votato è una magra consolazione.

Aautonomia in Lombardia. Alcuni eventi da ricordare

La seconda risposta sta nella forza delle motivazioni: è quella dell’autonomia. Si tratta di un’istanza-arcobaleno, ma niente affatto labile. Per tutti gli elettori significa, fondamentalmente, il rifiuto di continuare a gettare le tasse nel calderone nazionale, dal quale una quota ingente di risorse prende la direzione verso gli apparati burocratici nazionali e, soprattutto, verso le Regioni a statuto speciale, che ne fanno, non tutte, un pessimo uso, oscillante tra l’inefficienza, lo spreco e la corruzione. Tutto l’elettorato del Nord si riconosce in questo rifiuto.

A questo idem sentire vengono risposte politiche diverse. Per la Lega del 1997 “autonomia” significava indipendenza dall’Italia. Per il centro-sinistra del 2001, con il suo nuovo Titolo V della Costituzione- significava e continua a significare “regionalismo ai limiti del federalismo” o “regionalismo a geometria variabile” o “regionalismo differenziato”, comunque no all’indipendenza. Dal 2001, la Lega Nord entra nel Governo Berlusconi e contemporaneamente nel letargo federalista. Tanto che, quando Formigoni aprì la trattativa con il Governo Berlusconi nel 2009 su un pacchetto di richieste per un regionalismo differenziato in Lombardia, furono proprio Bossi, Ministro per le riforme per il federalismo, e Maroni, Ministro dell’Interno, a opporsi. Gelosie federaliste?

Nel 2016 il centro-sinistra ripropose una revisione del nuovo Titolo, che ri-centralizzava necessariamente alcune materie strategiche nazionali e istituiva il Senato delle Regioni. Fu di nuovo respinto dalla Lega, perchè accusato di centralismo. In realtà, era la prima volta che si prevedeva un Parlamento delle Regioni. In quest’anno 2017, la Lega Nord si è risvegliata, non è chiaro se perchè ridiventata sensibile al “grido di dolore, che sale da qualche decennio dal cuore del Nord, o perchè il suo gruppo dirigente è lacerato da un conflitto radicale sull’identità, la cui posta in gioco è: Lega del Nord (Bossi-Maroni-Zaia) o Lega nazionale (Salvini)?

Molti osservatori, costituzionalisti, partiti di centro-sinistra hanno insistito principalmente su questo aspetto, riducendo l’intera operazione-referendum ad una mossa politico-propagandistica ad uso interno alla Lega e mettendo in evidenza l’illusorietà delle promesse e la complessità del percorso verso l’autonomia. A loro volta, hanno proposto come modello la via meno propagandistica, ma più efficace, dell’Emilia-Romagna, a sua volta uscita dal letargo in tempi recenti e sospetti. Quanto a Berlusconi, ha rilanciato: “Le Regioni? Tutte speciali!”. Per non voler dire “No alle Regioni a Statuto speciale” – il voto siciliano incombe! – tutte vengono elevate al rango “speciale”: todos caballeros!. I paradossi di Russell impallidiscono al confronto: se tutte le Regioni diventano speciali, “speciale” e “ordinario” non coincidono? Ma, in questo frangente, è il PD ad aver toccato il top, che fu già di Ponzio Pilato: quid est autonomia? Risposta: pensatela come volete e votate quello che preferite!

Il voto di Milano e il deficit di spirito costituente dei partiti

Intanto dalla cortina fumogena del dibattito post-referendario emerge che il sistema regionale non è affatto migliorato dall’epoca della sua attivazione in avanti e che la politica non ha voluto affrontare la questione. Di qui la collera pacifica dell’elettorato del Nord, una parte del quale è esasperata fino al punto di seguire il primo pifferaio che si metta davanti.

Romano Prodi ha accusato in questi giorni le Regioni ricche del Nord di essere egoiste e, pertanto, di minare alla base l’unità nazionale. In realtà, ciò che mina l’unità nazionale è l’impotenza della politica in ordine alle riforme dell’intero assetto statale centralistico, esteso meccanicamente dai Piemontesi nel 1861 all’intero territorio nazionale e confermato dalla Costituzione del 1948. Perchè scatti la necessaria solidarietà federale, occorre che le Regioni “povere” amministrino con correttezza, efficienza, efficacia. Se non lo fanno, nessuno può impedire, nell’attuale assetto istituzionale, che i soldi delle Regioni ricche vadano a finanziare l’inefficienza, la corruzione e persino la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra.

Se la solidarietà si trasforma in complicità forzata per via di fiscalità nazionale, gli elettori del Nord sono stufi di subire lo scorno di esservi obbligati e le beffe di essere accusati di egoismo antinazionale. I tentativi fatti all’interno della Conferenza Stato-Regioni di definire in pratica i LEP (Livelli essenziali di prestazione), previsti dall’art. 117 comma m, relativi a istruzione/formazione, salute, assistenza sono sempre falliti. In realtà, all’interno di tutti i partiti si é creato uno strato intermedio di personale politico, che è cresciuto sulla distribuzione della spesa pubblica e che è strenuamente interessato al mantenimento dello status quo, in primo luogo, delle Regioni a Statuto speciale.

Unica eccezione, in questi giorni, la posizione controcorrente del siciliano Davide Faraone, sottosegretario alla Salute nel Governo Gentiloni, che ha dichiarato di voler organizzare un referendum per l’abolizione dello Statuto speciale della Sicilia, divenuto alibi e usbergo di ogni inefficienza amministrativa e del cattivo uso del denaro pubblico. Il personale politico regionale non vuole il regionalismo/federalismo a responsabilità fiscale, perchè dovrebbe assumersi l’ingrato compito di tassare direttamente, senza poter accusare lo Stato centrale di esosità fiscale e senza poter spendere allegramente e poi chiedere il ripianamento da parte dello Stato.

Ciò che si deve fare è ormai noto a tutti i partiti: un drastico dimezzamento del numero delle Regioni (10 Regioni? 6 Cantoni? 3 Repubbliche?) e un ridisegno federale dei poteri dello Stato. Un rinnovato Nation building reso urgente dalle sfide istituzionali dell’Europa e del quadro geopolitico mondiale. Solo che per cambiare la Costituzione occorrono forze costituenti. I partiti di oggi non lo sono, non hanno la cultura politica necessaria e sufficiente, galleggiano provvisoriamente sugli interessi immediati. Soprattutto, non hanno il coraggio morale di dire al Paese le cose come stanno e come bisogni cambiarle. La debole partecipazione dell’area metropolitana milanese, il 20%, non significa affatto debolezza della domanda, bensì disinteresse polemico e astensione di protesta verso il basso livello delle risposte istituzionali della politica. Perché una previsione è certa: che le cose continueranno esattamente come prima.

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