E’ partita la riforma della Diocesi. Il ruolo dei preti, decisivo e incerto

Duomo di Bergamo

È partita, dunque, la grande riforma della Chiesa di Bergamo. Grande e ambiziosa. Si ridisegna la geografia pastorale della diocesi, si creano figure e strutture nuove, i vicariati da 28 diventano 13 e si chiameranno CET, Comunità Ecclesiali Territoriali, si ipotizzano forme nuove di aggregazione dei preti, si istituisce un consiglio pastorale per ogni vicariato… Intanto sono stati indicati i 13 vicari (vedi il dossier di questa settimana).

Di fronte a questo grande sforzo, si ha la sensazione di un diffuso atteggiamento di attesa, del tipo “vediamo un po’ come va a finire”. Comprensibile. Anche perché la riforma non parte – e non poteva partire – dal basso, ma dall’alto e molto dipenderà da come verrà accolta.

I preti decisivi. Ma non tutti partecipano

Da questo punto di vista, ancora una volta, si dovrà prendere atto che tutto o quasi dipenderà dai preti. Per un semplicissimo motivo: la Chiesa, così come è, qui da noi è stata modellata sulla figura del prete, che è sempre stato il perno della comunità, almeno dal Concilio di Trento in qua. Un nuovo assetto della Chiesa deve per forza partire da quello che c’è per ipotizzare qualcosa di diverso. Quello che c’è cambia e il nuovo deve essere in buona parte inventato. E sia il punto di partenza che quello di arrivo deve fare i conti con i preti, con quello che facevano e con quello che dovrebbero fare.

Ora è certo che buona parte dei preti è onestamente convinta che diverse strutture esistenti funzionano male o funzionano poco. Basta pensare ai 28 vicariati esistenti. Pochi vicariati hanno il consiglio pastorale: i laici, quindi, sono ancora in buona parte marginali. E gli stessi consigli presbiterali (cioè la riunione dei preti di un certo vicariato) non vedono sempre una partecipazione massiccia e faticano a programmare il da farsi. I preti presi dalla “loro” parrocchia sentono il vicariato come un di più che, spesso, arriva a complicare ulteriormente la vita. A parte alcune situazioni positive, che spesso si collocano in zone periferiche della diocesi, il vicariato è molto sulla carta e poco nella realtà.

Il carisma della sintesi non la sintesi dei carismi

Adesso arrivano le CET. La domanda nasce scontata: riusciranno le CET a fare quello che non sono riusciti a fare i vicariati? E quale sarà il ruolo del prete in questo cambiamento? Ecco: questo resta, di fatto, il problema numero uno. Ai preti la riforma chiede di stare sempre di più “in rete”, sia perché sono sempre di meno, sia perché tutta la riforma nasce per riconoscere il ruolo essenziale dei laici. La figura del prete che serve alla riforma ipotizzata è il collaborante per eccellenza, quello che collabora e fa collaborare. Diventa sempre più attuale un gioco di parole che pare sia di Papa Paolo VI: il prete non ha la sintesi dei carismi, ma il carisma della sintesi. Non deve fare tutto lui, ma deve far fare, fare sintesi, appunto.
Ora, la prima necessità per collaborare è “esserci”, partecipare. I preti dei vicariati partecipano. Ma non tutti. In ogni vicariato esiste una frangia di preti contestatori silenziosi che, sistematicamente, ignorano le riunioni di vicariato. E non si tratta sempre di preti anziani. Talvolta sono giovani, stavolta sono titolari di parrocchie. Difficile ipotizzare che, con l’arrivo delle CET, ci sia una conversione massiccia. Chi non c’era, molto probabilmente non ci sarà. Sicché la riforma che nasce con una fisionomia fortemente comunitaria, nasce qua e là zoppa. La comunità ci sarà ma solo con chi ci sta. Alcune parrocchie resteranno tagliate fuori. Non per grandi motivi, ma per un motivo molto terra terra: il parroco non è convinto.

Questi, e alcuni altri, i dubbi. Ma i dubbi serviranno anche a dare una tonalità ancora più coraggiosa a chi, nonostante tutto, intende raccogliere la sfida.