Se all’approssimarsi del nuovo anno intendete dedicarvi allo stantio gioco sociale della lettura degli oroscopi di Branko o di Paolo Fox, liberissimi di farlo. Chi preferisse invece un libro che non faccia dipendere dagli influssi astrali il nostro prossimo futuro, prenda in considerazione Futuro + Umano. Quello che l’intelligenza artificiale non potrà mai darci, pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi (pp. 191, 24 euro, ebook a 16,99 euro). L’autore, il sociologo Francesco Morace, insegna al Politecnico di Milano ed è presidente del Future Concept Lab, un centro che conduce ricerche di marketing a livello internazionale; nelle pagine iniziali del volume, riferendosi all’impatto della tecnologia digitale sulla condizione umana, egli scrive: «Le macchine non sperano e questo rimarrà il nostro vantaggio incommensurabile: il valore aggiunto dell’umano è la tensione utopica verso un futuro che si desidera. Gli uomini e le donne sono macchine desideranti, e tali continueranno a essere in modo radicale, nel bene e nel male. Il nostro futuro dipenderà dalla qualità dei nostri desideri e da una intatta capacità di sperare». In realtà, Futuro + Umano non tratta prevalentemente di sistemi di intelligenza artificiale né del Web 4.0, ma di alcune tendenze culturali già tracciabili nell’epoca presente e di come potrebbero modificarsi negli anni a venire.
Professor Morace, c’è chi imputa al digitale e al World Wide Web di favorire un’ipertrofia dei desideri individuali, che finirebbero per trasformarsi in «capricci»: solo di fronte a uno schermo, l’utente della Rete sarebbe portato a ordinare e a consumare in perfetta solitudine, senza dar conto a nessuno delle scelte.
«Il digitale non ha creato, ma può rafforzare questa deriva. Il “capriccio” in fondo contraddice la logica del desiderio, che aspira a essere coltivato nel tempo e può alimentare una vocazione personale; incapricciandosi di una cosa, invece, si cerca di averla subito, salvo abbandonarla poco dopo, non appena è venuta a noia. Ripeto, il Web non è il solo responsabile di questa tendenza, benché possa amplificarla. Occorre comunque considerare che online nascono delle comunità di utenti capaci di condividere interessi e progetti significativi di ordine culturale, sociale e politico. Come in molti altri casi, anche parlando del Web è meglio evitare le posizioni estreme. Si tratta di studiare la Rete, di capirne il funzionamento e le potenzialità, che sono molto ampie, purché abbiamo le idee chiare sul modo in cui vogliamo avvalercene».
È anche abbastanza diffuso il timore che la globalizzazione finirà per confondere in un unico «idioma» le culture e le identità locali: il mondo intero tenderebbe ad assomigliare alla Trude de Le città invisibili di Calvino, la metropoli in cui i negozi mettono in mostra «mercanzie imballaggi insegne» uguali a quelle di tanti altri luoghi.
«Nell’ultima parte del mio libro formulo un’ipotesi che non ha naturalmente la pretesa di anticipare nei dettagli ciò che accadrà fra qualche anno, ma corrisponde comunque – mi pare – a una speranza fondata. Faccio riferimento in particolare al nostro Paese, che è depositario di una lunga tradizione in materia di “qualità della vita”: l’importanza delle relazioni interpersonali, la cura del cibo e degli ambienti domestici, la moda e il design rientrano tra le componenti di questo nostro stile, ammirato in tutto il mondo e alternativo a un approccio “a bassa risoluzione”, a una fruizione superficiale e frettolosa delle cose e dei luoghi. Dal 2015 – l’anno in cui Milano aveva ospitato l’Expo – il Future Concept Lab promuove un Festival della Crescita, con incontri e dibattiti in diverse città italiane: l’idea guida di questa rassegna itinerante è che non ci si debba limitare a difendere una cultura della “profondità”, incentrata sui valori umani, ma che la si debba diffondere, anche servendosi dei muovi mezzi che il digitale mette a nostra disposizione. Non si tratta di una pia aspirazione: proprio Milano, da alcuni anni a questa parte, offre l’esempio concreto di una città che ha saputo svilupparsi positivamente, con un incremento significativo del benessere dei suoi abitanti».
Lo conferma uno studio recente del Sole 24 Ore.
«Sì, attualmente Milano è la città italiana dove si vive meglio. Proprio con l’Expo si è messo in moto un circolo virtuoso che riguarda non solo la politica, l’economia o l’architettura, ma la società civile nel suo complesso».
A proposito di crescita: oggi c’è anche chi ritiene che si debba procedere in senso diametralmente opposto. Pure in Italia, esercitano un discreto appeal le idee del sociologo francese Serge Latouche in merito alla possibilità/necessità di una «decrescita felice».
«Essendo anch’io sociologo, mi è capitato più volte di incontrare Latouche e di dialogare con lui. Del suo discorso, condivido il momento “diagnostico”: sono d’accordo sull’idea che un certo modello di sviluppo, prevalente in passato, non risulti oggi più sostenibile. Quello che non condivido – e considero anzi molto pericoloso – è la terapia proposta dallo stesso Latouche e dagli altri “decrescenti”: non trovo realistica la tesi per cui dovremmo fare un passo indietro, magari trasferendoci tutti in campagna e praticando un’economia su scala ristretta, per rimediare ai guasti della globalizzazione. Il problema è che la teoria della decrescita non è più una fantasticheria di un gruppetto di intellettuali un po’ snob, portati a rimpiangere un mondo migliore che in effetti non è mai esistito. Di recente questa ideologia ha fatto breccia a livello politico, anche in Italia: la ritroviamo in alcune posizioni – a mio modo di vedere potenzialmente devastanti – del MoVimento 5 Stelle».
Nelle pagine di Futuro + umano si critica duramente anche un’altra mitologia, quella del «postmodernismo», con i suoi temi portanti (l’elogio della «frammentarietà», la fuga dalla storia, la decostruzione della soggettività umana, la riduzione dell’etica a questione di prospettiva). Lei propone di riscoprire i valori fondanti della modernità? Di approdare a una versione aggiornata della triade «libertà, uguaglianza, fraternità»?
«Credo che un percorso in questo senso, in direzione di una “neomodernità”, sia già iniziato. Ci stiamo lasciando rapidamente alle spalle le categorie e gli artifici retorici del postmodernismo: rispetto a venti o a trent’anni fa, pochi si dicono ancora convinti che la realtà si riduca a un gioco di “simulacri”, che la verità sia semplicemente il prodotto di convenzioni linguistiche. Come ha osservato il filosofo Roberto Mordacci in un suo recente volume, La condizione neomoderna, il postmodernismo ha finito per delegittimare a priori ogni impresa politica e culturale, “con l’argomento che ogni criterio di vaglio tra le possibilità sia già violenza, che distinguere tra bene e male sia già una forma di totalitarismo”. “Il presente – aggiunge Mordacci – non ci consente questa indifferenza”. Da parte mia, confido che il prossimo futuro potrà essere all’insegna di un New Enlightenment, di un illuminismo evidentemente diverso da quello settecentesco di Voltaire e Beccaria, ma ugualmente fondato sull’idea che il confronto razionale sia il solo modo adeguato per decidere in quale direzione noi esseri umani dobbiamo e vogliamo andare».