Il viaggio di Noemi Santini in Guinea Bissau: “Abbiamo toccato con mano cosa significa essenziale”

Noemi Santini, giovane bergamasca, collaboratrice del Santalessandro, racconta l’esperienza di missione vissuta con il Pime quest’estate in Guinea Bissau.

Quando ho iniziato Giovani e Missione, il percorso che il Pime propone ogni anno ai giovani che coltivano nel cuore il sogno di vivere una piccola esperienza di missione, non mi sarei mai aspettata di essere destinata in Guinea Bissau, perché, con tutta sincerità, non sapevo collocarla geograficamente in modo esatto. Solo più tardi ho scoperto trattarsi di un piccolo fazzoletto di terra grande poco più della Lombardia, incastrato tra il Senegal e la Guinea, nell’Africa occidentale. Figurarsi poi quando mi è stato comunicato che la mia missione si sarebbe svolta a Suzana, un villaggio che compare solo in pochissime mappe super dettagliate.

Una volta atterrata a Bissau, la capitale, insieme al mio fidanzato Cristian e agli altri due compagni di missione, Ciro e Chiara, ho scoperto che per arrivare a Suzana servono più di cinque ore di jeep, percorrendo strade di terra rossa talmente dissestate che è difficile definirle tali, attraversando ponti e risaie, inoltrandosi sempre più all’interno della foresta. Proprio quando la strada finisce e lascia spazio a distese di verde dove la natura è padrona e l’uomo non può fare altro che imparare a conviverci, ecco spuntare Suzana, un villaggio a Nord Ovest della Guinea Bissau e distante solo una manciata di chilometri dal Senegal. Gli abitanti sono poco più di mille, per la maggior parte ormai cristiani, ma ci sono anche importanti componenti animiste e islamiche. La missione del PIME è attiva da più di settant’anni, fondata dai padri Marmugi e Andreoletti, continuata poi con padre Giuseppe Fumagalli, meglio conosciuto come padre Zè, missionario a Suzana da ormai più di cinquant’anni. È stato proprio padre Zè ad ospitare per un mese me e i miei compagni di missione, mostrandoci e spiegandoci la bellezza di quel luogo e dei suoi abitanti.

Una bellezza però che si svela piano piano e solo se si ha la pazienza di guardare con attenzione. L’impatto con Suzana infatti è stato molto forte. Non solo il clima ci ha messo alla prova, con le sue temperature altissime già di prima mattina e l’umidità che raggiungeva spesso il 90%, ma anche la ricca fauna locale, con numerosissimi insetti di ogni specie e qualità, serpenti velenosi da cui ci hanno messo in guardia fin dal primo giorno, pipistrelli giganti, avvoltoi, iguane, coccodrilli e tanto altro ancora: ogni giorno c’era qualcosa di nuovo di cui meravigliarsi.  Accettare le condizioni del villaggio non è stato facile: a Suzana manca l’acqua corrente e il popolo Felup, l’etnia che abita prevalentemente sulla costa a nord ovest della Guinea Bissau, si rifornisce dai pozzi che sono stati costruiti grazie a padre Zè; non esiste elettricità o una qualsiasi fonte di energia; le persone seguono il ritmo della natura, vivono di pesca e agricoltura a seconda della stagione; appena compiuti tre anni, i bambini sono considerati adulti e pronti ad aiutare il resto della famiglia lavorando nei campi oppure badando al gregge o alle mandrie;  l’igiene non è sicuramente la principale preoccupazione e il primo ambulatorio disponibile è a due ore di strada da Suzana, il primo ospedale invece si trova in Senegal, altrimenti bisogna recarsi a Bissau; le automobili disponibili sono solo quelle appartenenti alla missione, ci si sposta in moto se è possibile, oppure in bicicletta, ma per lo più si va a piedi. Si respira aria di povertà ovunque.

Eppure, non è stata tanto la precarietà di Suzana a metterci alla prova. Se è stato forse complicato adattarci agli ambienti spartani ed essenziali del villaggio e della missione, nonostante quest’ultima si trovi decisamente in condizioni migliori rispetto alle case di fango e paglia in cui vivono i Felup, ancora più difficile è stato tornare alle comodità di cui disponiamo quotidianamente a casa: abbiamo toccato con mano cosa significa la parola “essenziale” e dopo qualche giorno a Suzana non sentivamo più la mancanza degli agi di cui disponiamo qui in Italia, anzi, ci siamo accorti che a volte ci distolgono da un vivere più sano, più genuino, con meno pensieri e meno pesi sul cuore. In realtà, la vera difficoltà è stata “stare” a Suzana, vivere al cento per cento la missione. Infatti abbiamo trascorso la maggior parte del tempo con la comunità di Suzana, perché gli spostamenti erano complicati, i villaggi molto distanti tra loro. Ogni giorno c’era qualcosa da fare, dal riparare alcuni macchinari nell’officina avviata da padre Zé, al cambiare le lampadine, ripulire le stanze impolverate e invase dai ragni, cercare di far funzionare i pannelli fotovoltaici, rilegare i libretti dei canti per la messa. Molto spesso però, per mancanza di pezzi di ricambio e per la costante precarietà, non si riusciva a concludere i lavori e un senso di inutilità ha iniziato a farsi strada in me. Solo dopo qualche giorno di luci a neon non funzionati, di camere ad aria bucate e altri lavori lasciati a metà, ho capito che stare in missione non significava tanto darsi da fare, quando piuttosto vivere la comunità di Suzana e condividere con loro la quotidianità. Allora tutto ha iniziato ad assumere un senso diverso. I corsi di panificazione e di lingua italiana e inglese che abbiamo tenuto per qualche giorno non erano importanti per le poche nozioni che riuscivamo ad insegnare ai giovani di Suzana, quanto perché trascorrevamo del tempo con loro, conoscendoli e scambiando momenti di comunione. Era bello passare la giornata giocando con i bambini, nonostante non sempre fosse semplice, ma vedere la loro gioia nell’aspettarci sulle porte delle nostre stanze è qualcosa di indescrivibile. Ho capito che sì, forse non sono riuscita a dare quanto volevo, ma ho ricevuto tantissimo. La comunità di Suzana, come quelle dei villaggi vicini di Katon e Kassolol e di quelli più lontani di Ejin e Ehlalab, ancora più sperduti nella foresta, ci hanno accolto con una gioia e una gratuità che purtroppo noi europei abbiamo dimenticato e che spesso non usiamo più con gli stranieri. Siamo rimasti senza parole di fronte ad una vecchietta che, senza nemmeno conoscerci, ci ha ringraziato per il semplice fatto di essere lì con loro a condividere il momento della messa e abbiamo davvero sentito la presenza del Signore quando, assetati dopo una camminata sotto il sole in mezzo alle risaie, Antonio ha tagliato per noi un cocco, dissetandoci, e Maria ci ha portato una ciotola di riso e pesce. Questo ha significato per me, Cristiane, Ciro e Chiara vivere e stare in missione: condividere gesti semplici con la comunità, partecipare alla messa e ai momenti di preghiera comunitaria e anche a quelli meno gioiosi, come il funerale di una signora morta per tubercolosi. Il Signore l’abbiamo incontrato nei volti delle persone che ci salutavano chiamandoci per nome, nei bambini che ci prendevano per mano e ci guidavano nel villaggio, negli occhi lucidi dell’amico Pedro che non voleva lasciarci tornare a casa e nei racconti spontanei di padre Zè quando ci ritrovavamo tutti insieme seduti intorno alla tavola, che testimoniavano una vita spesa completamente per gli altri e per il Vangelo, e cosa significhi veramente essere missionari, perché “io non ho paura di morire: se perdo la mia vita la guadagno soltanto”.

Le emozioni provate durante la missione sono tantissime, non è facile riordinarle e dare un nome ad ognuna. A volte i ricordi sono confusi, allora rileggo il diario scritto quando ero a Suzana e tutto ritorna chiaro e preciso. Una cosa sento essere certa: la missione è stata per me un dono grandissimo e adesso è mia responsabilità ridonarlo al mondo.