José Tolentino de Mendonça: “La vera immunità di gregge è la costruzione di un mondo più umano”

Nel 1908, Auguste Rodin realizzò una scultura singolare, con due mani – due mani destre, dunque di persone distinte – che si incrociano e si alzano fino a che le punte delle dita si toccano, quasi descrivendo un arco: a distanza di tempo l’artista parigino diede a quest’opera, che inizialmente aveva chiamato L’arca dell’alleanza, il titolo La Cattedrale. «Una cattedrale – scrive il cardinale José Tolentino de Mendonça – non è solamente un territorio sacro esteriore al quale i nostri piedi ci conducono. Non è soltanto un tempio situato in un determinato spazio. E neppure solo un rifugio sicuro segnalato dalle mappe. Una cattedrale è realizzata anche dalle nostre mani aperte, disponibili e supplicanti, ovunque noi ci troviamo. Perché dove c’è un essere umano, ferito di finitudine e di infinito, là si trova l’asse di una cattedrale. Dove possiamo realizzare quell’esperienza vitale di ricerca e di ascolto per la quale la risposta non è l’immanenza. Dove le nostre mani possano levarsi in alto: in desiderio, urgenza e sete. Questo sarà sempre uno degli assi della cattedrale. L’altro è disegnato dal mistero di Dio, che si avvicina a noi e ci stringe, anche quando non lo avvertiamo subito, anche quando il silenzio, un silenzio duro e denso, sembra la verità più tangibile». «Fu Pascal – prosegue il testo – a scrivere che “le mani sostengono l’anima”. Oggi abbiamo bisogno di mani – mani religiose e laiche – che sostengano l’anima del mondo. E che mostrino che la riscoperta del potere della speranza è la prima preghiera globale del XXI secolo».

Abbiamo preso questi brani da un ebook (Il potere della speranza. Mani che sostengono l’anima del mondo) che il cardinale de Mendonça ha scritto su richiesta di Vita e Pensiero, l’editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; il testo, che ha in copertina ha proprio l’immagine della Cattedrale rodiniana, può essere scaricato gratuitamente dal sito www.vitaepensiero.it.

Nato nel 1965 nell’isola portoghese di Madeira, José Tolentino de Mendonça ha firmato raccolte di poesie, testi pastorali e saggi letterari. Ordinato sacerdote nel 1990, nel 2018 è stato nominato da papa Bergoglio arcivescovo e archivista-bibliotecario di Santa Romana Chiesa; lo scorso anno è stato creato cardinale. Al cardinale Tolentino de Mendonça – che nel 2017 era stato ospite del BergamoFestival «Fare la Pace», conducendo una meditazione sul tema dell’«amicizia» – abbiamo posto alcune domande su questo suo ultimo libro e sul valore della speranza al tempo della pandemia di COVID-19.

Eminenza, in queste sue pagine, citando i capolavori di Albert Camus (La peste) e di José Saramago (Cecità), lei afferma che nella situazione attuale noi abbiamo assolutamente bisogno «di trovare delle parabole». Che cosa ci possono insegnare romanzi e racconti come quelli che lei ha menzionato, ambientati in tempi di epidemie? Che l’umano ha insospettabili capacità di resistenza nei confronti del male, del caos? 

«Uno dei poteri più importanti che le storie hanno – e questo è ciò che la letteratura ci offre: uno straordinario archivio di storie – è quello di funzionare come specchi della nostra realtà. Leggiamo le storie e ci sentiamo compresi, perché lì troviamo descritta un’esperienza equivalente a quella che facciamo e per la quale, molte volte, non avevamo ancora trovato parole o le parole giuste. La situazione di emergenza globale innescata dalla pandemia ci ha colti tutti impreparati. Per questo motivo, all’inizio sentivamo tutti la necessità di parabole già scritte o mostrate dal cinema che raccontassero esperienze simili. Questo è un modo per domare la paura dell’ignoto. Ma poi abbiamo fatto un passo avanti. E abbiamo iniziato a desiderare nuove parabole che aiutassero a interpretare e a dare un senso alla nostra sofferenza più profonda. Credo che papa Francesco sia stato un maestro straordinario. Quella celebrazione del venerdì sera nella vuota piazza San Pietro è stata la parabola più potente e necessaria per questi tempi. Francesco, abbracciando il vuoto e la solitudine, è come se li avesse esorcizzati: abbiamo così iniziato a guardare il vuoto in un altro modo. Ciò dimostra come la fede sia una parabola in grado di toccare e guarire il cuore umano».

Nei giornali e nei social media si sta scrivendo e parlando moltissimo sulla pandemia da coronavirus. Non rischiamo anche di fare della «cattiva letteratura» o «cattiva televisione» su una situazione oggettivamente tragica? Milan Kundera diceva, parlando del «regno del Kitsch», che in esso ci commuoveremmo per noi stessi, per le nostre disposizioni d’animo, anziché per quanto accade agli altri.    

«Come viene affrontato il trauma? Perché, in sostanza, è di questo che parliamo quando parliamo della pandemia: un trauma, cioè un’aggressione inaspettata per la quale non avevamo difese e che ha sconvolto la nostra immagine del mondo. Una delle cose importanti da fare in un percorso di guarigione, secondo quanto dicono gli psichiatri, è raccontare a qualcuno la nostra storia. Per questo motivo, questo momento di pandemia è un tempo di parole, di resoconti che si accumulano, di narrazioni che si sovrappongono. Probabilmente è “cattiva letteratura”, ma non importa, credo che avrà un effetto terapeutico significativo. Quello che consiglio è questo: facciamo di questo momento un momento per parlare. Ma non per la parola ripetuta e stanca, per i commenti alle immagini che abbiamo inviato su WhatsApp, quasi senza pensarci. È essenziale che questo sia il tempo per le parole che desideravamo aver detto e forse non abbiamo detto ancora, quella parola d’amore che è stata rinviata, quella gratitudine per la vita dell’altro che non abbiamo ancora avuto il coraggio di esprimere. Questo è il momento».

Si può applicare a quanto sta succedendo la categoria biblica della «prova»? Detto diversamente: questo male ci sfida non ad assumere un atteggiamento morale «superiore», nobilmente stoico, ma a non cedere alla disperazione? La disperazione – non la fragilità – è l’esatto contrario della fede?

«Questo è certamente un momento di “prova”, in cui siamo tutti chiamati a una risposta eticamente qualificata. Papa Francesco ricorda spesso un principio, secondo cui “il tempo è superiore allo spazio”. Questo principio è di grande saggezza, poiché non assolutizza il presente, ma lo pone in relazione al passato e, soprattutto, al futuro. Abbiamo un futuro! Il discorso di fede ci aiuta ad abbracciare la fragilità, a non temere la fragilità, ma ci aiuta anche a sentire di nuovo quella parola che Dio disse ad Abramo: “Alza gli occhi da terra e conta le stelle”. Questo è anche il momento di guardare le stelle. O come diceva la mistica Etty Hillesum, nel diario che scrisse nel lager di Westerbork, questo è il momento “di guardare i gigli del campo”».

La speranza non chiede di tradursi in gesti concreti, in decisioni operative che riguardino il destino delle collettività, anche a livello politico? Per molti, la domanda su ciò che ci attende al termine di questa pandemia è forse ancora più angosciosa di quanto stiamo sperimentando nel presente…

«È importante rendersi conto che il mondo non sarà più quello che era, e che c’è un nuovo percorso che dobbiamo seguire. Ma per questo, dobbiamo rafforzare la nostra esperienza comunitaria. È insieme, tutti uniti, senza scartare nessuno, senza lasciare nessuno indietro che saremo in grado di affrontare le immense sfide che ci attendono. Non abbiamo dubbi: l’unica vera “immunità di gregge”, di cui si parla così tanto, è l’amore, la giustizia sociale, la costruzione di un mondo più umano. Tutte le altre “immunità di gregge” sono precarie e aggraveranno solo la crisi. Questo è il momento di camminare insieme, riscoprendo il significato concreto di parole come nazione, umanesimo, vita comune, fiducia».

Nella foto: particolare de “La cattedrale” di Auguste Rodin