Era stato facile prevedere che la formazione del “governo senza aggettivi”, guidato da Mario Draghi, avrebbe scombinato i tranquilli giochi interni di ciascun partito e le relazioni tra di loro. Essendo ormai abituati a recarsi là dove i sondaggi li chiamano, hanno scoperto che i famosi Italiani, a nome dei quali ciascun partito straparla nei TG, li stavano portando al seguito di Draghi. E perciò si sono messi faticosamente in movimento con salmerie e cariaggi. Non senza resistenze e pigrizie, tutte naturalmente a difesa delle “nostre idee e della nostra identità”, confuse e contraddittorie essendo le prime e labile la seconda. In realtà un’aggettivazione Draghi l’ha proposta: governo “repubblicano”. E tutt’altro che tautologica. “Repubblicano” indica una base peculiare di etica pubblica: Libertè, égalité, fraternité.
L’uso dell’aggettivo “repubblicano” traccia un binario di identità e di cultura politica, dentro il quale i partiti sono invitati a cambiare e camminare.
Intanto, nelle loro relazioni reciproche. Se i partiti accettano la liberté e l’égalité, però tendono a negare all’altro l’acquisizione di questi valori. Il fatto è che non praticano il terzo, che è la base di ogni comunità: la “fraternité”. Con la caduta della Prima repubblica nel 1994 si è dissolta anche la fraternità che le stava a fondamento, sostituita dal reciproco assedio dell’odio. La destra ha accusato la sinistra di “comunismo”, accusa tanto più paradossale quanto più il comunismo veniva consegnato alle macerie della storia; la sinistra ha accusato la destra di eversione e di immoralità pubblica e privata, di fascismo e di razzismo. Nessuno riconosce all’altro la piena legittimità repubblicana, l’altro è considerato inquilino abusivo. Come se, sotto la superficie della Repubblica, continuasse a scorrere il magma di una guerra civile di lunga durata. Più ancora che le inerzie antropologiche della storia nazionale è questa guerra civile strisciante che spiega perché non si riesca a costruire una statualità repubblicana solida e, pertanto, ad accordarsi su nuove o rinnovate istituzioni politiche ed amministrative all’altezza delle sfide del presente e, pertanto, non si riesca a governare seriamente. Eppure, senza la fratellanza repubblicana, la Repubblica non si costituisce. E perciò la politica diventa una logorante guerra di posizione e di trincea, in cui si avanza o si arretra di poche centinaia di metri. Non ci sono più i caduti a migliaia del Carso, ma cade fatalmente il Paese. Il mancato riconoscimento dell’altro porta la sinistra e la destra nazionalista – assai meno quella liberale – ad un’autoinvestitura soteriologica: o con me o la barbarie, o con me o la catastrofe. La politica diviene la rincorsa compulsiva all’accumulazione del consenso in vista di alternative radicali o di “pieni poteri”. Perciò la soluzione dei problemi del presente viene rinviata a quando si sarà costruito un monoblocco politico del 51%. Mentre la politica fa tintinnare le spade nel duello infinito, il Paese langue e si arrangia, di corporazione in corporazione.
Ora il Covid-19 ha posto bruscamente fine alla guerra delle parole, ha costretto ad un’educazione rapida ad un nuovo repubblicanesimo.
Di qui le resistenze e le fatiche dei partiti. Hanno fin qui raccolto “consenso contro” e, su questa base, hanno scelto i gruppi dirigenti e il leader, hanno costruito filosofie politiche e strutture di comunicazione, ispirate ad una cultura dell’odio e della distruzione morale dell’avversario. Hanno affilato la lama della proprie identità. Ora devono cambiare. Ciò che si impone loro è una rivoluzione culturale liberale.
“Liberale” non allude a policy specifiche di politica economica o del Welfare, più o meno liberista. Qui indica uno sguardo sulla società, sull’individuo, sulla storia che sia caratterizzato dal senso del limite, dal riconoscimento dell’altro, dall’idea della fallibilità e della provvisorietà dei punti di vista, sempre aperti alla falsificazione dei propri presupposti. Uno sguardo laico, che non intenda mai porsi dal punto di vista dell’Assoluto nel giudicare le cose del mondo, della politica e della vita. Nessuno può credere di salvarsi da solo né, tampoco, di essere salvatore dell’altro.
Da questo sguardo potrà derivare un nuovo principio di realtà, di verità e di competenza. Dopo aver gonfiato e fatto esplodere le parole, al fine di un consenso artificioso e perciò instabile ed emotivo, è l’ora della sobrietà della verità. La fuoriuscita dal populismo è avviata.
L’idea di costruire all’interno della larga maggioranza di governo due poli reciprocamente alternativi va in direzione di un tale cambiamento culturale?
Al momento, la mossa dell’intergruppo M5S-PD-LEU, nata all’interno dell’ex-maggioranza giallo-rossa, sembra guardare nostalgicamente all’indietro. La Meloni l’ha proposta a sua volta per il centro-destra, fortunatamente trovando resistenze in Forza Italia.
La prospettiva di un nuovo bipolarismo, analogo a quello che ha dato inizio alla Seconda repubblica, è certamente più avanzata rispetto a quella di una frammentazione proporzionalistica, cui spinge contraddittoriamente il PD. Questa volta, però, la costruzione del bi/tripolarismo, che è tipico di quasi tutti i Paesi europei, per essere produttiva di riforme per il Paese, dovrebbe avvenire dentro il perimetro dei tre valori repubblicani. All’ombra della Grosse Koalition del governo Draghi, si potranno ridefinire identità e linee programmatiche, ma, diversamente che nel 1994, dentro l’alveo comune della fraternità repubblicana. Dissipare l’odio, la violenza verbale, l’esclusione dell’altro in quanto altro è la condizione per costruire.
Buonismo moralistico, prediche inutili? E’ solo l’appello al principio di realtà. La delegittimazione reciproca indebolisce l’Italia nell’area internazionale. Cioè, ciascuno di noi come singoli, come famiglie, come imprese.