“Una notte sbagliata” di Marco Baliani al Teatro Sociale mette a nudo la “zona oscura” presente in ogni uomo

Da dove nasce la violenza? Come accade che l’istinto prevalga sulla ragione, che l’uomo perda il senso della misura, come un lupo che sente l’odore del sangue?

“Una notte sbagliata” di Marco Baliani, andato in scena al Teatro Sociale (praticamente al completo) giovedì 3 marzo nell’ambito della stagione degli Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti offre alcuni spunti di riflessione su questo tema con un racconto potente, disturbante, capace di far emergere la “zona oscura” presente in ogni uomo. 

La situazione di altissima tensione internazionale di questo momento ha aumentato la presa empatica dello spettacolo. La sirena antiaerea riprodotta all’inizio come segno di partecipazione è stata solo un (blando) antipasto: molte persone, alla fine, hanno reagito con profonda commozione.

Un viaggio alle radici della violenza e dei conflitti

Era impossibile non sentirsi coinvolti in prima persona, non percepire “nella carne” la forza del meccanismo attraverso il quale si genera il conflitto, nelle vicende individuali (come quella scelta come esempio) e fra i popoli del mondo.

Al centro la vicenda amara di un uomo fragile, Gaetano Schillaci, detto Tano, ex paziente psichiatrico, che vive in un quartiere di periferia con la madre e il cagnolino Uni, il suo compagno più fedele.

Tano conduce una vita tranquilla, scandita dai farmaci, dalle attività svolte in un Centro diurno, dalle passeggiate con il suo cane, dalle relazioni che intreccia con persone “ai margini”, come lui. Tano fatica a esprimersi a parole, il suo equilibrio precario è governato dai farmaci, ma quando disegna crea mondi straordinari e riesce a rimettere ogni cosa al suo posto. Proprio i suoi disegni costituiscono la scenografia spiazzante della narrazione di Baliani: il loro tratto fresco e infantile crea un contrasto stridente con la crudeltà della materia dello spettacolo. 

L’ingresso del “buco nero” da cui prende slancio il male

Tano arriva per caso in un punto di innesco, viene trasformato in capro espiatorio, corpo sacrificale e sacrificabile. I suoi aguzzini, poliziotti, difensori dell’ordine, rinnegando il proprio ruolo si ritrovano autori di un pestaggio insensato.

Uno spazio di pochi minuti si dilata all’infinito nel racconto, diventa il punto da cui scaturisce una deflagrazione di pensieri. I fatti vengono scomposti in fotogrammi, analizzati singolarmente per mostrare l’ingresso di quel “buco nero” da cui prende slancio il male.

L’autore riesce a riprodurre il modello comunicativo frammentato, dispersivo dei media contemporanei. Rinuncia alla linearità del flusso temporale per aggirare le difese del pubblico e insinuarsi fino in fondo all’anima.

Non è facile stare lì ad ascoltare fino alla fine senza sentirsi, anche solo per un momento, raggomitolati a terra, mentre arrivano da ogni parte colpi che siamo incapaci di parare. È difficile, d’altro canto, non sentirsi allo stesso tempo carnefici, per aver attuato in qualche momento una qualsiasi forma di sopraffazione, per averla anche soltanto desiderata, per una reazione di rabbia.

Richiamo diretto alle coscienze degli spettatori

Quella che Marco Baliani chiama “post-narrazione” diventa un richiamo diretto alle coscienze degli spettatori, che alla fine si sentono denudati, scossi, costretti a una nuova consapevolezza della realtà, come accade ai poliziotti della storia quando si rendono conto con stupore – come risvegliati all’improvviso da un sonno ipnotico – di ciò che hanno fatto a Tano, immobile e inerte davanti a loro.

Baliani compone una sinfonia a più voci, in cui oltre a Tano e ai poliziotti c’è anche lui, pronto a condividere una dolorosa esperienza personale. Poi c’è il pubblico, rappresentato attraverso le domande di un’immaginaria conferenza, e allo stesso tempo spinto a ripercorrere e a svelare la propria attitudine a fare, consentire, subire atti di violenza.

Una tappa significativa negli “Altri Percorsi” scelti dalla direttrice artistica della Fondazione Donizetti Maria Grazia Panigada, che quest’anno più che mai contribuiscono a portare alla luce il ruolo sociale e civile del teatro. Sono spettacoli che affiancano all’intrattenimento una funzione formativa e catartica, preziose sempre, ma soprattutto in momenti difficili come questi.