Il potere della propaganda. Quali strade restano ai “costruttori di pace”

regia tv show

“Il potere è prigioniero delle proprie menzogne, e pertanto deve continuamente falsificare. Falsifica il passato. Falsifica il presente e falsifica il futuro. Falsifica i dati statistici. Finge di non avere un apparato poliziesco onnipotente e capace di tutto. Finge di rispettare i diritti umani. Finge di non fingere. L’uomo non è obbligato a credere a tutte queste mistificazioni ma deve comportarsi come se ci credesse, o perlomeno deve sopportarle in silenzio o se non altro comportarsi bene con quelli che con esse operano. Pertanto è costretto a vivere nella menzogna”. 

Václav Havel scrisse queste parole nel saggio “Il potere dei senza potere” (Castelvecchi, p. 19) in Cecoslovacchia nel 1978. A quei tempi il suo Paese era governato dal Partito Comunista, che aveva preso il sopravvento grazie a un colpo di Stato appoggiato dall’Unione Sovietica.

Havel, che fu uomo di cultura e drammaturgo prima di dedicarsi alla politica, non rinunciò comunque mai all’impegno civile e il suo attivismo politico come dissidente gli costò cinque anni di prigione e un lungo periodo di emarginazione.

Le sue opere ci sono venute più volte in mente nelle ultime settimane seguendo i telegiornali e i talk show televisivi dedicati alle ostilità tra Ucraina e Russia. 

In primo luogo è come se lo scoppio di questo conflitto alle porte dell’Europa, ricreando di fatto i due blocchi esistenti durante la Guerra Fredda, avesse messo nuovamente a nudo con particolare crudezza i meccanismi di manipolazione della comunicazione.

In secondo luogo sono tornati nuovamente al centro della discussione – in modo diverso – concetti (valori) che per loro natura tendono a risultare come universali, come “giustizia” e “verità”. 

Lo spettacolo triste dei talk show televisivi

Assistiamo in queste settimane a uno spettacolo triste seguendo le trasmissioni “di informazione” in onda sui canali di tutto il mondo: la messa in scena di una propaganda urlata in cui l’ascolto e l’approfondimento hanno uno spazio scarsissimo, e ogni sera, con protagonisti diversi, va in scena lo stesso spettacolo di contrapposizione, in cui alla fine non vince nessuno. “È la guerra, bellezza!” Potremmo dire parafrasando la celebre battuta pronunciata da Humphrey Bogart ne “L’ultima minaccia” (lui, certo, parlava della stampa). 

Qualcun altro, dopo l’uscita infelice del ministro Lavrov sulle presunte origini ebraiche di Hitler ha detto che la tv “deve informare, non educare”. Ci chiediamo a questo punto che cosa questo significhi, se non sia opportuno, per ognuno, non solo per chi se ne occupa professionalmente, pensarci con serietà e rigore, senza affidarsi a risposte troppo facili, o alle prime disponibili.

Lo scopo delle trasmissioni televisive di dibattito, in Occidente come in Russia, in questo momento è unicamente quello di fare proseliti, non di aiutare a comprendere meglio i fatti. Lo stato d’animo dello spettatore, a fine serata, risulta nel migliore dei casi esacerbato e disilluso.

La delegittimazione degli organi di informazione

Ad aggiungere instabilità a questo contesto c’è un’azione sistematica di delegittimazione del lavoro degli organi di informazione (e di conseguenza dei professionisti che se ne occupano), condotto soprattutto attraverso i social network, anche in questo caso seguendo strategie sistematiche (e qui parliamo di business: per colossi come Facebook funziona ciò che produce click e interazioni, senza alcuna considerazione etica) per “accendere” gli animi.

Questo processo porta a un indebolimento generale della capacità di orientarsi in un mondo complesso, non – come qualcuno crede o vorrebbe far credere – a un suo miglioramento. In questo caso la “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith non funziona: perseguendo l’interesse personale non si producono (più?) ordine sociale e sviluppo economico. Dove il sistema dell’informazione è fragile, dove mancano la libertà e la capacità di ragionare, crescono il disorientamento e le possibilità di manipolazione.

Le grandi ideologie saranno davvero morte?

Abbiamo celebrato forse troppo presto i funerali delle grandi ideologie. Ecco perché un’enciclica come la “Pacem in terris” di Giovanni XXIII può tornare ad essere davvero, in tempi come questi, una bussola fondamentale.

Papa Giovanni dice fra l’altro che «un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani» (n. 85).

Vorremmo leggere in questa chiave anche il tentativo insistente di Papa Francesco di tenere aperto un dialogo, di ascoltare realmente le ragioni degli uni e degli altri, come un modo per concretizzare l’auspicio, contenuto anch’esso nella Pacem in Terris, che si possa pensare alla pace non come a un voto, una preghiera, facile da attuare, ma come a una costruzione difficile, che ci si può impegnare a realizzare fin negli ambiti nazionali più nevralgici, ma, oseremmo dire, anche in ambito personale – nella vita e nelle relazioni – .

Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratta di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità”.

GIOVANNI XXIII, Pacem in Terris