Costruire case e speranza per combattere la “sindrome della rassegnazione”

La chiamano “sindrome della rassegnazione” ed è la condizione di chi non ce la fa più ad affrontare la realtà in cui vive, e sprofonda quindi in un sonno simile al coma. Ha fatto scalpore, in passato, vedere le foto scattate ai bambini dormienti, figli dei migranti ospitati nei centri di transito e di accoglienza, sospesi nel limbo tra un Paese e l’altro, che manifestavano i sintomi del  “rifiuto traumatico”. Il sonno per fuggire da un mondo che li rifiuta.

Adesso nel carcere di Regina Coeli c’è un detenuto di origine pakistana di 28 anni che dorme da quattro mesi. Qualcuno l’ha soprannominato malignamente “simulatore”, pensando che finga, perché gli esami medici non hanno evidenziato significativi disturbi fisici. 

Il suo compagno di cella l’ha sempre visto lì, sulla sua branda, sdraiato. Anche i mediatori culturali che sono andati a visitarlo hanno constatato che non reagisce agli stimoli. Difficile mantenere consapevolmente questa attitudine per 120 giorni. Un tempo lunghissimo.

Perfino alle udienze è stato portato incosciente, steso su una barella, con il pannolone e il catetere attaccato.

Non sappiamo di quale crimine si sia macchiato. Indipendentemente da questo, la sua situazione suscita comunque molti interrogativi e qualche riflessione.

Ci poniamo alcune domande: è corretto che un uomo in queste condizioni resti in cella? Non sarebbe più opportuno portarlo in ospedale? Come mai gli è successo questo? Perché sono passati quattro mesi (e – immaginiamo – almeno un’udienza in tribunale) prima che questa situazione venisse resa nota?

Questo caso così particolare sollecita anche a considerare con attenzione la situazione delle carceri, e di persone “abbandonate” alle loro colpe. La giustizia deve fare il suo corso, ma deve esserci anche una possibilità di riabilitarsi.

Va in questa direzione, ci sembra, il protocollo firmato ieri al Ministero della Giustizia che prevede l’impiego dei detenuti in 5.000 cantieri di ricostruzione pubblica e in 2.500 per riparare le chiese danneggiate dal sisma del 2016. Questa iniziativa riguarda il Centro Italia e le regioni confinanti. 

Come ha sottolineato il presidente della CEI Matteo Zuppi “se vogliamo che il carcere non sia solo punitivo, ma soprattutto redentivo dobbiamo smettere di pensarlo come una realtà isolata, a sé stante, emarginata. Dare ai detenuti la possibilità di lavorare è un modo per farli sentire parte della comunità, per dare loro una prospettiva di futuro e un’alternativa valida per non tornare a delinquere una volta scontata la pena”. 

I detenuti potranno impegnarsi in lavori utili alla comunità, compiendo opere che hanno anche un valore simbolico: insieme con gli edifici avranno l’occasione di ricostruire anche le proprie vite. E se l’esperimento riuscirà, forse darà speranza anche a chi sogna di poter costruire una società in cui davvero “non si lascia indietro nessuno”.

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