Gli adolescenti, la pandemia e il tabù della morte. Charmet: “Parlarne aiuta a darle senso”

copertina gioventù rubata

“Che cosa la pandemia ha tolto agli adolescenti e come possiamo restituire il futuro ai nostri figli”, recita il sottotitolo del volume “Gioventù rubata” (Collana Bur Parenting 2022, Prefazione di Lella Costa, pp. 176, 16,00 euro), di Gustavo Pietropolli Charmet, uno dei più illustri psichiatri e psicoterapeuti italiani, autore di numerosi saggi sull’adolescenza e che da decenni lavora con gli adolescenti e le loro famiglie, in cui indaga su quanto è stato rubato dalla pandemia alle giovani generazioni, pensiamo al lockdown, alla mancanza di socializzazione, alla DAD e al “Tabù della morte”, al quale l’autore dedica il primo capitolo del libro. Ora che il peggio sembra passato, dobbiamo restituire ai nostri figli quel domani loro sottratto da un virus subdolo e feroce. 

In questo saggio Pietropolli Charmet confessa che “Pur lavorando da anni per almeno otto ore al giorno con i ragazzi e con i loro genitori e docenti, dell’entità del disastro mi sono accorto in ritardo”, affronta i punti critici del periodo che stiamo vivendo, e spiega come trasformarli in elementi di riflessione per consentire a genitori e figli di recuperare uno sguardo condiviso verso il futuro, costruendo relazioni sane in famiglia e nella collettività. 

Abbiamo intervistato Gustavo Pietropolli Charmet, che è stato primario in diversi ospedali psichiatrici, docente di Psicologia Dinamica all’Università Statale di Milano e all’Università di Milano Bicocca, e nel 1985 è stato tra i fondatori dell’Istituto Minotauro di cui è stato presidente fino al 2011. Oggi è presidente onorario dell’Associazione CAF (Centro Aiuto Minori e Famiglie) Onlus.

  • Prof Pietropolli Charmet, per quale motivo durante la pandemia gli adulti non hanno discusso sul tema della morte con i ragazzi?

«Perché nella cultura generale e in particolare nella cultura educativa italiana, il tema della morte è molto trascurato ed è ritenuto di pertinenza di gruppi specialistici: i sacerdoti, i medici, i sanitari in caso di malattie ma non si ritiene che faccia parte del processo formativo educativo e del processo di soggettivazione personale, cioè di costruzione di identità. La morte è un argomento tabù». 

  • Sarebbe successo lo stesso angoscioso fenomeno delle corsie di neuropsichiatria ospedaliera occupate se durante la pandemia si fosse parlato apertamente della morte possibile e della necessità di lottare tutti insieme, giovani e vecchi? 

«No. In realtà la pandemia ha dimostrato che solo con una spiegazione della gravità degli eventi e con una mobilitazione generale di tutte le generazioni, si poteva creare un’alleanza vera. In tal modo si poteva sperare di riuscire a battere il virus, che per ora non ha né vinto e né perso, è ancora qui e la battaglia è ancora in corso. Ma il problema di battere il virus non fa parte del problema educativo. L’educazione può dare senso, valore, importanza a un processo di responsabilizzazione personale che può aumentare e può essere efficace dal punto di vista di una mobilizzazione generale se si comprende che la vita è una continua alternanza di momenti di vittoria, di trionfo, di felicità e di soddisfazione, che si alternano con attimi di tristezza, dolore, sconforto, sconfitta, malinconia e di perdita. Ma la nostra educazione, soprattutto in questo momento, preferisce nascondere ai giovani la dimensione della sconfitta e della morte, nel timore che questo possa deprimere i ragazzi. Che possa addirittura istigare al suicidio».

  • È vero che gli adolescenti producono molti pensieri attorno alla propria morte e che alla maggior parte di loro non fa paura? 

«Quando è astratta no, quando però il pericolo di morte si avvicina e diventa concreto allora emerge l’esperienza del terrore, del fantasma, della strega, del demonio. Quando si è piccoli si pensa all’assassino che di notte è arrivato e si è nascosto sotto il letto o dentro l’armadio. Quindi ecco la paura del buio e della notte quando la morte o qualcosa che ha una parentela con la morte prende il sopravvento sulla vita». 

  • Dall’ultimo rapporto Unicef è risultato che in Europa 9 milioni di adolescenti (tra i 10 e i 19 anni) convivono con un disturbo legato alla salute mentale e il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani con 3 ragazzi al giorno che si tolgono la vita. Come è mai possibile? 

«Sì, è vero, nel corso degli ultimi anni il tasso di suicidio, soprattutto tra i maschi, è aumentato in modo considerevole, come il tentativo di suicidio, come se la morte fosse migliore della vita. Il suicidio è un comportamento molto violento. È auspicabile che si possa parlare con i giovani di questi argomenti scottanti, altrimenti al posto della parola subentrano le azioni. La simulazione della morte e la fantasia legata anche alla diffusione della morte virtuale legata ai videogames ha sdoganato la morte. La diffusione del suicidio tra i giovani dimostra che tra loro ne parlano ma non trovano mai un adulto disponibile a parlare seriamente e coraggiosamente della morte, perché il pregiudizio educativo è che parlarne può significare aizzarli verso la morte. Istigare e incuriosire verso istinti anticonservativi». 

  • Nel volume parla di “educazione alla morte”. Ce ne vuole parlare?

«In ambito scolastico il percorso è relativamente semplice, perché il problema di cosa ci sia dopo la morte incuriosisce gli adolescenti. La vita è il contrario della morte. Ecco cosa è la morte. Ma la morte è davvero la fine della vita o invece è l’inizio di un’altra vita? Nel corso dei millenni, testardamente, l’uomo ha cercato di dare un senso alla morte, costruendo le piramidi, i grandi templi, costruendo idee su cosa c’è dopo la morte. La morte come inizio di un’altra fase, che non è più la vita, ma un’altra cosa. Quando si è ragazzi, si è interessati a questa riflessione. Se i ragazzi vedono che non c’è disponibilità negli adulti nel parlarne, ne parlano tra di loro. C’è il pericolo che, invece di parlarne, compiano delle azioni pericolose, i cosiddetti “comportamenti a rischio”, riti di passaggio da loro organizzati, che simulano il passaggio dalla vita alla morte, simulando il rischio di morte. Una cosa che aiuta i ragazzi a dare un senso alla morte, che si può battere. Buona parte del divertimento degli adolescenti consiste nel prendere in giro la morte attualizzandola, pensiamo alle giostre che simulano situazioni rischiose, ai videogames, ai travestimenti sia ad Halloween sia a Carnevale».

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