Il Pd a caccia di una nuova identità. La sua malattia cronica: chiuso nel labirinto ideologico del ‘900

Il PD presenta ormai la desolante fenomenologia dell’ammuina politico-intellettuale. Come definire diversamente la partecipazione a tutte le manifestazioni “pacifiste”: Sì alle armi all’Ucraina! No alle armi all’Ucraina!, o la ripresentazione del DL Zan, senza gli articoli che nella Legislatura scorsa erano stati ostinatamente conservati, a dispetto di ogni suggerimento di eliminarli, o il pulviscolo di autocandidature a segretario/a, senza lo straccio di un programma, o il Sì a Conte/No a Conte, o la difesa dei rave come manifestazione di democrazia, o l’appello all’unità delle tre opposizioni e la spartizione delle cariche istituzionali con il solo M5S, o il fuoco di sbarramento “istintivo” e preventivo contro l’ipotesi di una candidatura Moratti alla Presidenza della Regione Lombardia?

Pare una “nave dei folli”, la “stultifera navis” del tardo Medioevo, alla deriva.

A chi è rimasto a riva restano la curiosità politologica di comprendere le cause del fenomeno e la preoccupazione politica per il venir meno di una condizione basilare della dialettica democratica, quella dell’esistenza di una forza di opposizione.

Il labirinto ideologico del ‘900 lo tiene prigioniero

Qual è la malattia cronica del PD? È il ‘900. È il suo labirinto ideologico, da cui non riesce ad uscire. 

Potrebbe forse ritrovare l’uscita, ripercorrendo a ritroso, sulle proprie tracce, ripartendo, con il pensiero riflettente, dal 1892, anno di fondazione del PSI. In quel partito confluirono allora anarchici, repubblicani, radical-borghesi, operaisti. Ben presto si sarebbe diviso in massimalisti e minimalisti-riformisti.

Questo lessico parte dal Congresso di Erfurt del Partito socialdemocratico tedesco (14-20 ottobre 1891), nel corso del quale era stato proposto un “Programma massimo”, scritto da Karl Kautsky, che riprendeva le analisi essenziali e l’orizzonte del Capitale di K. Marx, ma non la proposta della dittatura del proletariato, perché il Capitalismo sarebbe crollato da solo; e un “Programma minimo”, scritto da Eduard Bernstein, che comprendeva una quindicina di punti, tra i quali il suffragio universale, la libertà di espressione e di associazione, la giornata lavorativa di otto ore, l’assistenza sanitaria, la scuola pubblica obbligatoria e gratuita, la parità uomo/donna, la tassazione diretta e progressiva, cioè la democrazia e l’Welfare. 

La speranza dei minimalisti era che procedendo nelle conquiste “minime” si sarebbe raggiunta quella “massima”: il potere politico sarebbe caduto nelle braccia dei proletari.

La divisione originaria delle ideologie

Furono i Bolscevichi di Lenin a teorizzare il percorso opposto: prima occorreva realizzare con il fucile l’obbiettivo massimo – la dittatura del proletariato – e, a cascata, si sarebbero raggiunti gli obbiettivi democratici “minimi”.

Fu così che Lenin passò alla via di fatto e liquidò con un colpo di Stato il governo liberal-socialista di Kerensky e l’Assemblea costituente già in corso di votazione.

La storia della sinistra europea e di quella italiana, in specie, è stata attraversata da parte a parte da quella originaria divisione, che si cristallizzò in Seconda internazionale socialista e in Terza internazionale comunista.

I socialisti tedeschi, francesi e italiani, per non parlare di quelli nordici, hanno cancellato dal loro orizzonte il “Programma massimo”.

I comunisti italiani, francesi e spagnoli invece lo hanno vagheggiato a lungo, pur adottando, nel dopoguerra, di necessità virtù, la via democratica per il suo raggiungimento.

Questa è stata, del resto, la scelta del PCI togliattiano e berlingueriano: il leninismo democratico. 

Quali i contenuti effettivi di questo ossimoro? E come hanno segnato la cultura politica delle sigle PCI-PDS-DS-PD?

In primo luogo, la Rivoluzione d’Ottobre è stata considerata come il punto più alto della storia mondiale della liberazione umana, come compimento, inveramento e superamento della Rivoluzione francese. Insomma una vera Aufhebung!

“Il lampo del ‘17”, secondo l’espressione dannunziana di Goffredo Bettini, ha squarciato irreversibilmente la storia contemporanea, aprendo orizzonti di liberazione su scala mondiale, spaccando l’orbe geopolitico in imperialismo USA/anti-imperialismo dei Paesi comunisti. Solo che, alla luce di questo giudizio, non si può comprendere né la Russia attuale né la Cina.

Intanto, ne sono conseguiti, tra il 1949 e il 1989, il No alla Nato, il No all’Europa, il No allo SME, il No alla sicurezza europea, con il rifiuto dei Pershing e dei Cruise, proposti dal Cancelliere Schmidt, appoggiato invece da Cossiga e Craxi.  

In secondo luogo, il giudizio sprezzante sulla socialdemocrazia e sul PSI, considerati solo l’altra spalla del solito fucile: quello della borghesia capitalistica.

La permanenza di questo giudizio berlingueriano, anche dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, ha impedito al PCI-PDS-DS di fare l’Unità socialista con Craxi e ha liquidato le correnti miglioriste interne.

Il rifiuto del Pci di diventare e dirsi socialdemocratico

Dopo l’89 il PCI ha rifiutato di diventare e di dirsi socialdemocratico. Farlo avrebbe significato riconoscere che il Blitz del ’17 non era stato affatto foriero di liberazione. Ha cambiato nome, ma non ha voluto rivedere/revisionare la storia, che stava dietro quel nome.

In terzo luogo, mentre nei gruppi dirigenti del PCI-PDS-DS-PD è caduta l’illusione, dopo il 1989, del Programma massimo, ha continuato a funzionare nella cultura politica media dei militanti e nell’inconscio collettivo dei gruppi dirigenti l’idea che, sì, il Programma minimo è l’unico terreno che possiamo pestare, ma lo si deve fare in modo radicale e massimalista, quasi fosse il mezzo di un’accumulazione di forze per un indefinito orizzonte lontano. Dunque, cultura di opposizione, non di governo.  

Il PD, cui Walter Veltroni forni la base politico-culturale con il discorso del Lingotto del 14 ottobre 2007, parve superare di slancio tutto ciò. Il guaio fu che il PD si limitò semplicemente a inghiottire il proprio passato, senza digerirlo, senza ruminazione intellettuale.

Ruminare significava, in primo luogo, fare i conti con la storia dei propri rapporti con il PSI. Una parte del gruppo dirigente, che per comodità chiamiamo dalemiana, e gran parte dei gruppi intermedi, che avevano fatto carriera nella battaglia contro Craxi, a partire dallo stesso giovane D’Alema, oscillava tra la reticenza e l’ostilità poco dissimulata.

Né contribuì alla ruminazione la sinistra democristiana, che costituiva uno dei pilastri dell’operazione PD, lontana dal craxismo per cultura politica e per lotta politica concreta. Si ricordano le clamorose dimissioni in blocco di cinque suoi ministri – Fracanzani, Mannino, Martinazzoli, Mattarella e Misasi – il 28 luglio 1990 contro l’approvazione della Legge Mammì sull’emittenza radiotelevisiva privata, vedi alla voce Berlusconi, fortemente sospettato di tirare la volata a Craxi.

L’attenzione (mancata) alla cultura politica del partito

Né il cambio vorticoso di segretari che ne seguì favorì il dibattito interno. Lo stesso Renzi non si curò della cultura politica del partito, illudendosi che i fatti e le scelte e, soprattutto, i successi ne avrebbero fatto passare automaticamente una nuova. 

Alla fine, è prevalse l’inerzia dorotea del potere: dove la verità divide, il potere fa da collante. Fino a che non lo si perde, si intende.

Nel frattempo è venuta avanti una classe dirigente interna, condensata nei Gruppi parlamentari, senza cultura politica, senza storia e memoria, cresciuta a like e a salti della quaglia da una corrente all’altra…

Si possono adottare molte denominazioni – socialista, socialdemocratico, laburista, liberal-socialista… – ma la nuova denominazione deve avere come fondamento la volontà e la capacità di fare i conti con la propria storia. Il revisionismo in casa PD deve ancora arrivare. Ecco perché appare oggi come una canna al vento.

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