Dalmine, “La vita familiare è germoglio e lievito nelle attività della parrocchia”

La vita familiare è «un germoglio» che porta movimento nella comunità cristiana, generando nuove relazioni, facendo in modo che ognuno possa «sentirsi a casa». È questa l’immagine emersa dall’incontro del vescovo Francesco Beschi con alcune famiglie della parrocchia San Giuseppe di Dalmine, nel corso del pellegrinaggio pastorale nella fraternità 2 della Cet 12.

«Ognuno può riconoscersi in gesti piccoli come aprire la porta o svegliarsi insieme al mattino – ha spiegato il vescovo –. Sono gesti che si ripetono e che a volte vengono dati per scontati, sono invece una fonte inesauribile di scoperte, offrono spunti che possono essere messi in comune». Un punto di partenza importante per costruire nuove prospettive: «Come chiesa – ha proseguito il vescovo – dobbiamo far sì che le persone possano riconoscere la loro vita nelle parole che diciamo, nel Vangelo che leggiamo, nell’Eucarestia che celebriamo. Se i giovani a volte non vengono a Messa è proprio per questo, perché non trovano nulla per la loro vita. Non è facendo i fuochi d’artificio che attireremo le persone».

Famiglie protagoniste della costruzione della comunità

Il parroco, don Roberto Belotti, ha ricostruito la genesi dell’attività di queste famiglie: «Due anni fa, partendo dalla sua lettera pastorale dedicata alla famiglia, l’équipe pastorale ha avviato un’attività di formazione, iniziata su invito, con una ventina di coppie. Ha proposto una serie di incontri con l’obiettivo di offrire una maggiore consapevolezza di quanto le famiglie possano essere protagoniste della costruzione della comunità. Non vogliamo creare un gruppo chiuso, ma il principio della creazione di un movimento dentro la parrocchia, con il desiderio di approfondire la vocazione al matrimonio e viverla dentro la comunità, con l’idea che qui dentro possano stare tutte le persone che lo desiderano».

L’équipe educativa avvia ogni incontro con alcune domande e tracce di lavoro, lasciando poi spazio al confronto tra i partecipanti. Al termine c’è un momento di preghiera, infine le famiglie condividono la cena all’oratorio.
Nella lettera pastorale di due anni fa il vescovo aveva invitato le famiglie a passare «dall’appartamento all’appartenenza comunitaria».

Alcune coppie hanno sottolineato come l’isolamento sia una tentazione costante, accentuata negli ultimi anni dalla pandemia: «In questo periodo critico – hanno detto al vescovo – ci siamo abituati a chiuderci: poche relazioni, meno incontri, meno voglia di tessere nuovi legami».

La famiglia dev’essere consapevole della sua forza generativa

Monsignor Beschi ha rinnovato l’invito a una maggiore apertura: «La famiglia dev’essere consapevole della sua ricchezza e della sua forza generativa. Il peccato originale che ha commesso negli ultimi anni – a livello generale – è la privatizzazione. La famiglia è un affare personale, non privato. Coinvolge tutta la persona, anima, corpo, sentimento, ma non è un affare privato. La privatizzazione ha tolto alla società uno dei principali soggetti che la costituiscono e ha reso la famiglia stessa più fragile. Finché le cose vanno bene, infatti, continua a essere un tesoro, ma quando c’è un problema, un elemento di destabilizzazione, si ritrova totalmente sola.
Per contrastare questa privatizzazione bisogna costruire una vita relazionale, a partire dagli amici, dai colleghi di lavoro, dai genitori dei compagni di scuola dei figli».

Qualche genitore ha manifestato la difficoltà di coinvolgere i figli adolescenti: «I valori – ha chiarito il vescovo – si trasmettono, la fede no, perché è il frutto di un incontro personale con Dio».

“Fermarsi a riflettere sulla propria vita”


Ognuna delle famiglie presenti ha messo nel dialogo un pezzo della propria vita, sottolineando che «questa esperienza potrebbe essere un seme da portare anche oltre la nostra parrocchia».

Il vescovo ha riassunto la situazione attuale della chiesa e delle comunità cristiane usando una metafora contadina: «Un tempo nella madia trovavamo la farina già macinata per noi. Un certo modo di essere cristiani e di essere famiglia è stato macinato dai secoli. Il tempo non scorreva così veloce, i cambiamenti erano più lenti. Con quella farina si faceva il pane per vivere. Oggi abbiamo ancora grano buono ma siamo noi che dobbiamo macinare la farina. I cambiamenti sono rapidissimi, quello che è stato macinato nei secoli oggi non ci dà più pane. Macinare vuol dire anche fermarsi e riflettere sulla propria vita: ascoltare il Vangelo, altre persone, i preti. Macinare è necessario perché non mangiamo i chicchi di grano, ma il pane»

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *