Michela Murgia e la testimonianza di vita nella malattia. Suor Chiara: “Le persone con cui condividiamo la strada ci danno speranza”

Buongiorno suor Chiara 
In queste ultime settimane la scrittrice Michela Murgia rendendo pubblica la sua malattia ha anche posto il tema di chi sia titolato a stare vicino ai malati, se solo la famiglia istituzionalmente costituita o le persone amiche che ognuno si sceglie, con cui si instaurano a volte legami molto forti. Cosa ne pensa? Un caro saluto 
Beatrice

Cara Beatrice, le malattie, e in modo particolare quelle terminali, ci pongono di fronte alla fragilità e finitudine dell’esistenza, alla nostra umana vulnerabilità.

La scrittrice Michela Murgia ce lo testimonia attraverso la sua situazione che, inesorabilmente e lentamente, la sta conducendo alla morte.

Quando fisicamente siamo in una condizione di grave malattia, la nostra vita cambia: ciò che è superficiale, banale, viene meno e rimane ciò che è essenziale, quelle relazioni significative che abbiamo ricevuto in dono o che abbiamo costruito nel tempo e che hanno il sapore di eternità.

In questi passaggi così importanti, nei quali l’incertezza e, perché no, anche la paura ci toccano e ci mettono in crisi, possiamo anche sperimentare che solo l’amore resta, perché vorremmo accanto a noi quelle persone significative, familiari o amici, con le quali abbiamo condiviso tratti di esistenza, pezzi di strada, valori irrinunciabili, esperienze belle e arricchenti, sofferenze che ci hanno cambiato, parole che ci hanno edificato o che hanno dato spessore alla vita.

Leggendo qualche articolo su questa scrittrice, mi ha colpito che, alla domanda se credesse in Dio, lei ha risposto con una bella espressione: “Certo. L’ho pregato, lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà”.

E immagina l’Aldilà: “non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione fortissima, senza intervalli”.

La sua è una vita spesa nel costruire relazioni che non saranno cancellate dalla morte, ma in Dio, si vivranno in un’altra dimensione. Credo che la questione non sia tanto nel vivere relazioni parentali o amicali, ma nella qualità e profondità dei legami che nella vita terrena si sono pazientemente costruiti.

Mi sembra che la qualità delle relazioni sia un orizzonte molto bello che può dare speranza. Di fronte alla malattia, e ancor più alla morte, siamo soli con noi stessi e, se credenti, soli di fronte a Dio, ma possiamo vivere una “solitudine “che non è isolamento”, perché abitata da tanti volti che hanno camminato con noi e con i quali abbiamo seminato fraternità ed eternità.

Così si esprimeva Etty Hillesum a riguardo, in procinto di partire dal campo di concentramento verso una morte certa: “Non mi porto ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me […] “E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione”. 

La vita ci riserva, a volte, dei passaggi inediti e impensati che ci possono sfigurare o trasfigurare: viverli con fede e in compagnia di fratelli e sorelle che amiamo, rede l’ultimo tratto del cammino meno drammatico e ci prepara a entrare in quella comunione di santi che ci accoglierà quando varcheremo la soglia della vita terrena per entrare in quella eterna.

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