Cristianesimo & convivialità. Marino Niola: “Mangiare con temperanza è un principio etico”

“Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei” è una frase che è stata adattata un po’ a tutto ed è ricordata come una citazione del gastronomo e politico francese Jean Anthelme Brillat-Savarin. Ma per il volume “Mangiare come Dio comanda” (Einaudi 2023, Collana “Vele”, pp. 168, 12 euro), scritto a quattro mani da Marino Niola e Elisabetta Moro, entrambi antropologi e docenti all’Università di Napoli, Suor Orsola Benincasa, vale la frase “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi è il tuo Dio”. 

Nel testo gli autori, marito e moglie, tracciano quel fil rouge che lega le grandi e le piccole religioni agli usi, ai costumi, alle abitudini dei popoli, quindi alla loro cultura. 

Ne parliamo con Marino Niola, condirettore del Museo virtuale della dieta mediterranea e del MedEatResearch e presidente del Comitato d’indirizzo della Fondazione FICO per l’educazione alimentare e la sostenibilità ambientale di Bologna. 

  • Prof. Niola, se è vero che attraverso le sue scelte alimentari, ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità, in questo senso il cibo, proprio in quanto carburante della storia, è anche la materia prima della religione? 

«Sì, di solito quando un popolo costruisce l’immagine di sé, la costruisce sempre su uno sfondo soprannaturale, quello della divinità. Quindi a immagine e somiglianza. Si dice: “Dio ci ha creato a Sua immagine e somiglianza”, in realtà sono gli uomini che creano gli dei a loro immagine e somiglianza. Fra queste cose ovviamente, visto che il cibo è un aspetto fortemente identitario, è chiaro che si attribuiscono agli dei delle abitudini alimentari, però sono gli uomini che le costruiscono, ma in realtà le attribuiscono agli dei. Quindi gli dei diventano una fonte che dà autorità alle scelte degli uomini. Se una cosa è di origine divina, l’ha detta Dio, anzi “Come Dio comanda”, quella cosa va seguita, quel precetto va seguito. Diventa un modo per regolare i comportamenti alimentari e sociali in generale. Di fatto, attraverso la precettistica religiosa in materia di alimentazione, gli uomini operano una regolamentazione sociale. Per esempio, il fatto che la maggior parte delle religioni raccomandi la temperanza apparentemente sembra una regola dietetica, in realtà è una regola etica, perché invita a redistribuire le risorse alimentari. Cioè a non ingrassare a spese degli altri». 

  • Il cristianesimo ha compiuto un passo decisivo verso un’alimentazione libera da tabù e ha fatto della convivialità un valore supremo. A differenza delle fedi che lo hanno preceduto e di quelle che lo hanno seguito, non discrimina tra cibi leciti e illeciti, puri e impuri. Il buon cristiano mangia di tutto. Quindi la scelta di cosa mangiare diventa una decisione personale, non più un obbligo religioso? 

«Sì, il cristiano può mangiare di tutto, ma lo può fare in un certo modo, come dice San Paolo, cioè con temperanza, che è il vero precetto del cristiano a tavola. San Paolo, grande intellettuale che è la grande fonte culturale del Cristianesimo, dice che tutto quello che si trova sul banco del mercato, è buono per i cristiani. Dicendo questo San Paolo intende distinguere il Cristianesimo dall’Ebraismo, che invece ha molti divieti. San Paolo dice che il cristiano mangiando tutto con temperanza e non egoisticamente, non è avido, ma ne lascia per gli altri. Vuol dire che il cristiano mangia di tutto un po’. Di tutto un po’ oggi viene interpretato come una specie di mantra dietetico, una regola dietetica. Vuol dire che le religioni hanno sempre una doppia anima, un’anima religiosa, morale e un’anima fisico-dietetica. In fondo la disciplina dei digiuni, delle astinenze che il Cristianesimo, fino a qualche decennio fa, ha promosso, ha questo doppio effetto. Faceva bene non solo al corpo ma anche al corpo sociale, perché evitava l’accumulo dei cibi in poche mani e cercava il più possibile di favorire una redistribuzione equa e solidale». 

  • Un capitolo del libro è dedicato alla “Teologia della dieta mediterranea”. Di che cosa si tratta?

«Nel libro facciamo la storia di tre elementi base della dieta mediterranea: cereali, olio e vino che sono presenti in tutte le culture dei Paesi del bacino del Mediterraneo tranne le aree islamiche. Anticamente nei paesi islamici il vino non era vietato, infatti i protagonisti de “Le mille e una notte” bevono spesso e più che volentieri. Questi tre elementi sono di origine sacra, doni degli dei. I cerali sono il dono di Demetra, la Dea Madre, così come tradotto dal greco. L’olio è il dono di Atena, protettrice della città di Atene, e considerata allo stesso tempo il simbolo della democrazia moderna. Il vino è il dono di Dioniso, il dio straniero che arriva da lontano e insegna a produrre e a bere il vino. Attraverso il vino, l’uomo scopre un’altra parte di sé, scopre quello straniero che sta dentro di sé. La sacralizzazione di questi tre elementi è come un marchio DOC. Quando il mondo diventa cristiano, il Cristianesimo fa suoi questi tre elementi, pane, olio e vino e li concentra tutti su Cristo. Cristo offre all’umanità durante l’Ultima Cena il (per)dono del Suo corpo, ridistribuito sotto forma di pane e di vino, che è il sangue di Cristo. L’olio sta nel Suo nome, perché Christus in greco significa “unto”, tanto è vero che viene catturato nell’orto di Getsemani, che in aramaico vuol dire “frantoio”. I tre elementi della triade pagana diventano i simboli del sacramento eucaristico». 

  • Un filo doppio lega cibo e religione nel mondo ebraico. Dietro ogni ricetta c’è un precetto, un obbligo o un divieto. Che cosa mangiare o non mangiare, quando, quanto, in quali giorni banchettare, in quali digiunare. Ce ne vuole parlare? 

«Per gli ebrei la questione dei divieti è fondamentale, perché la loro alimentazione è fortemente aderente ai precetti dell’Antico Testamento. Il Levitico è tutto dedicato a quello che un buon ebreo può mangiare o no. Vengono enunciati i precetti fondamentali di quella che oggi si chiama kasherùt che vuol dire “purezza”, “correttezza” e che distingue gli elementi in due categorie, gli alimenti kasher che si possono mangiare, da quelli proibiti, perché impuri.  Attraverso le scelte alimentari la religione esercita una forma di controllo sui comportamenti, sui consumi e sulla sostenibilità. Gli ebrei a tavola ricordano continuamente gli eventi fondanti della loro storia e del loro rapporto con Dio. Molti cibi ebraici della festa sono cibi che ricordano qualcosa, come il pane azzimo che ricorda la Pasqua e rievoca l’esodo dall’Egitto. Il piatto diventa ricordo della loro storia, ai bambini viene raccontata ogni volta, quindi imparano la storia del loro popolo mangiandola, mettendosela in corpo. Inoltre, quando gli ebrei si siedono a tavola benedicono il cibo, anche quando si alzano, quindi c’è un rapporto strettissimo fra religione e alimentazione».  

  • È vero che nella religione islamica il cibo è il terreno sul quale si misura e valuta il comportamento quotidiano di tutti? 

«Sì, il buon maomettano è colui che segue i precetti del Profeta. Non a caso gli islamici praticano molto i digiuni devoti, hanno questo uso del Ramadan che dura un mese.  Durante questo periodo il cibo diventa protagonista dopo il tramonto quando si può mangiare “Come Dio comanda”».

  • Il meglio delle nostre cucine deriva dall’incontro e dallo scontro fra i tre grandi monoteismi? 

«Sì, hanno esercitato moltissima influenza le religioni, l’una sull’altra, ciascuna religione era la religione di un popolo e il Mediterraneo è un incrocio di popoli, quindi è chiaro che si mescolava tutto, anche la cucina. Basti pensare alla Sicilia araba o all’Andalusia, a Cordova, in Spagna, dove vivevano in perfetta armonia la comunità cristiana, ebraica e araba. Alcuni cibi identitari della cucina italiana, hanno una derivazione straniera, pensiamo al pomodoro. Mille anni prima della nascita di Cristo in Messico veniva venduto il suo concentrato. Da noi il pomodoro arriva tra il 500/600, però prima di entrare in cucina ci mette altri due secoli. Nel 700 il pomodoro era quasi assente, come sarebbe un piatto di fettuccine senza la salsa di pomodoro? Quest’ultimo è la dimostrazione che in cucina non è importante dove è nato il cibo, ma dove rinasce, perché un altro popolo riesce a farlo suo».

  • Quando parliamo di “cibomania” e “cibofobia” a che cosa ci riferiamo? 

«Sono le due tendenze in cui si dibatte il mondo occidentale ricco e civilizzato. Da una parte la “cibomania”, cioè la mania di seguire format di cucina in tv e corsi di cucina, ci sentiamo tutti cuochi provetti. Dall’altra parte la “cibofobia”, cioè aumentano le schiere di penitenti che fanno del cibo una sorta di lotta fra il Bene e il Male. Trasformando il cibo in una sorta di farmaco, aboliscono dalla loro tavola una serie di alimenti che considerano dannosi. Ogni giorno c’è un cibo che viene demonizzato. Altro discorso meritano i cibi considerati salvavita: lo zenzero, la curcuma, ora va di moda il kimchi, cibo fermentato coreano». 

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