Italo Calvino, uno dei “grandi” del Novecento. Cercava la verità, nelle fiabe come nel quotidiano

I cento anni di Italo Calvino (1923-1985) sono non tanto un’occasione celebrativa -l’autore del Barone rampante è stato uno dei più grandi del Novecento – ma la possibilità di fare i conti con l’improbabilità dei giudizi esterni, quelli, per capirci, legati alle apparenze e ai manifesti ideologici.

Uno degli intellettuali organici al partito comunista, fino al 1956, data dell’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche, non era tanto un simpatizzante di Marx e Lenin quanto delle fiabe antiche, della fantasia, dell’invenzione libera da remore ideologiche e dell’illuminismo: tant’è vero che dopo l’arrivo dei carri armati comunisti in Ungheria restituì la tessera del partito.

Forse la spiegazione è quella che si è data lui stesso: il fatto di essere cresciuto in una famiglia di intellettuali non credenti, illuministi, tra le prime a chiedere l’esonero dalle lezioni di religione al liceo di Sanremo negli anni del fascismo in Italia, gli ha impedito paradossalmente di provare eventuali remore e antipatie verso il clero e la fede.

Il giovane futuro scrittore è cresciuto con uno sguardo certamente influenzato dal socialismo e dall’anarchismo che respirava in famiglia, ma anche con una sorta di sguardo neutrale sulla questione religiosa.

Neutrale, ma non indifferente: in alcune sue opere si avverte la fascinazione di una religiosità non bigotta, fatta di amore gratuito verso gli ultimi: non è un caso che uno dei personaggi più toccanti della sua narrativa sia una suora che assiste i malati più gravi del Cottolengo in La giornata d’uno scrutatore, uscito nel 1963.

Romanzo breve che esprime tutte le contraddizioni di un Calvino che non aveva più fiducia nelle magnifiche, progressive e marxiste sorti predicate dal comunismo, e che iniziava a dubitare che con la sola intelligenza il mondo potesse rivelare i suoi segreti.

Un padre che imbocca in silenzio il figlio colpito dalla demenza guardandolo per ore negli occhi, come se volesse dire qualcosa d’altro senza trovare le parole, la suora che accudisce persone sottratte addirittura alla vista dei visitatori “gli indicavano un territorio per lui sconosciuto”.

Ma non è solo l’apparizione dell’incomprensibile che lo colpisce e ne fa un narratore affidabile perché non nasconde ciò che non corrisponde alla sua visione del mondo: la naturale propensione a sondare tutta la realtà, anche quella che l’ideologia marxista aveva deciso di sottacere, arriva a mettere in dubbio la possibilità non solo di quella e di altre ideologie, ma anche della letteratura stessa di capire la realtà.

Un suo racconto del 1958, L’avventura di un lettore, compreso nella raccolta Gli amori difficili, è davvero emblematico: il protagonista non può fare a meno di leggere, perché leggere per lui significa vivere, e qui si vede la sua simpatia per scrittori come Queneau e Borges, solo per fare due nomi. Quando l’amore, come al solito senza preavviso, si affaccia nella sua vita, lui continua ad essere indeciso quale delle sue possibilità, la realtà e il mondo della scrittura, scegliere. L’amore scritto nei libri è affascinante quanto quello che bussa all’improvviso alla porta, magari senza il fascino della fantasia e dell’avventura.

Il suo stesso ricorrere alla favola moderna, all’ironia non tagliente, ma quasi affettuosa e costruttiva, alle leggende cavalleresche, ai romanzi d’avventura come la trilogia de I nostri antenati (dal 1952 al 1959), ai tarocchi (in Il castello dei destini incrociati) ne fanno un unicum nella nostra letteratura, rivelandoci uno scrittore libero dai pesanti condizionamenti politici, a costo di narrare le sue stesse contraddizioni. E oggi uno così sarebbe davvero molto utile, perché non seguirebbe mode mediatiche, ma cercherebbe la verità, nelle fiabe come nel quotidiano.

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