Molte fedi, Recalcati e una riflessione necessaria sull’arte di comunicare nella Chiesa

L’uso delle parole è da sempre una competenza fondamentale per le persone che operano nella Chiesa. L’arte di comunicare nelle sue mille forme è strettamente legata all’opera di annuncio della fede, alla narrazione dei buoni esempi da prendere come riferimento, alla condivisione di esperienze di vita capaci di generare altre buone azioni.

La storia del cristianesimo è una storia di comunicazione: inizia con i primi impacciati discorsi di Stefano e Pietro negli Atti degli Apostoli e arriva fino alle avanguardie su Tik Tok dei giorni nostri.

Concetti, emozioni, storie, motti e slogan sono transitati dalle menti di predicatori e missionari verso intere popolazioni attraverso sermoni pronunciati dai pulpiti, manifesti di ogni genere e tipo, spot pubblicitari, trasmissioni radiofoniche e chissà quanto altro ancora.

Teoria e tecnica della comunicazione nelle comunità

Eppure, la riflessione dentro la Chiesa rispetto al bisogno di comunicare e alle modalità per farlo al meglio non è sempre vivace e generativa. Per essere più precisi dovremmo dire che il magistero e gli organismi incaricati di studiare e gestire l’uso delle parole (che è anche uso delle immagini, dei suoni e formazione di un immaginario collettivo) ha competenze, esperienza, progetti e intuizioni in abbondanza.

Ma le realtà più vicine alla vita quotidiana e alla gente comune arrancano parecchio. Quanti tra i preti che ogni domenica salgono sul pulpito ha frequentato un corso di public speaking? Chi tra i catechisti o gli animatori di gruppi biblici ha dimestichezza con le tecniche della teatralità per raggiungere in maniera efficace i propri interlocutori?

In quale realtà oratoriana ci si organizza seriamente per avere dei format sui social che portino il messaggio evangelico ad adolescenti e giovani in maniera attrattiva? Talvolta si ha l’impressione che esistano distanze infinite tra le competenze di chi opera nell’ambito della trasmissione del sapere e i membri della comunità cristiana che vive la dimensione dell’annuncio delle fede, clero compreso. 

Ma non è solo un problema di tecnica. Uno dei disagi maggiori in chi ha a che fare con l’annuncio della fede è comprenderne la forza e l’attualità: perché il Vangelo oggi dovrebbe affascinare la vita degli uomini e delle donne? A quali tra le domande di senso che riusciamo a formulare il messaggio cristiano riesce a dare risposta? Perché le vicende dei patriarchi o dei profeti distanti millenni da noi e dai nostri problemi sanno interpellare il nostro presente?

Che sapienza portano i credenti all’attenzione del mondo?

Che sapienza portano i credenti all’attenzione di persone mediamente istruite, pienamente consapevoli della rivoluzione culturale portata dalle scienze, consapevoli delle scoperte della psicologia sulla comprensione della vita interiore e incuriosite dalle tante tradizioni culturali diverse da quella europea?

Di questi interrogativi nelle assemblee diocesane o nei consigli pastorali se ne parla poco. Probabilmente il tema mette molti a disagio e la via della ripetizione dei linguaggi stereotipati ereditati dalla tradizione appare la più praticabile e rassicurante.

Quando a interessarsi di Bibbia, simboli della tradizione cristiana, percorsi di vita interiore, indicazioni in ambito morale arrivano esponenti del mondo culturale la sfida diventa grande. Non è insolito negli ambienti ecclesiali sentire lamentele perché il “laico di turno” si impossessa di termini che non gli appartengono oppure ripete “ciò che i parroci di campagna dicono da sempre”.

Loro senza successo nelle chiese non più piene, il guru del momento in un teatro da tutto esaurito con un pubblico disposto a pagare un costoso biglietto di ingresso. Per tanti – preti soprattutto – la sensazione è descritta come un furto subito alla propria cassaforte. 

Per reggere al disagio le strategie più adottate sono due: il brontolamento, che punta a sminuisce la presenza invadente del nuovo predicatore, e la manovra evasiva, che consiste nell’evitare la frequentazione di quegli ambienti dove i “moderni evangelizzatori” danno voce alla loro comprensione della realtà. Raramente si arriva allo scontro o al più auspicabile confronto.

Recalcati e la psicanalisi del mondo contemporaneo

Tra i competitor più temuti – per chi aderisce a questa lettura della realtà – c’è il celebre psicanalista e saggista Massimo Recalcati. Recentemente è intervenuto presso l’Auditorium del Seminario Diocesano, invitato dalle ACLI di Bergamo per la rassegna Molte Fedi sotto lo Stesso Cielo, per la presentazione del suo ultimo libro “A pugni chiusi. Psicanalisi del mondo contemporaneo.” edito da Feltrinelli. 

L’intervento di Recalcati è cominciato con la narrazione di un grave fatto di cronaca, un delitto apparentemente senza movente accaduto nel febbraio del 2019 a Torino: un giovane di 34 anni è stato ucciso con una coltellata alla gola da uno sconosciuto mentre si recava al lavoro camminando lungo una delle strade della movida torinese. La giustificazione? “Era troppo felice”.

Subito Recalcati ha aggiunto un secondo episodio cruento e preoccupante: la morte di un anziano, vittima di rapina da parte di una banda di minorenni. Uno dei colpevoli è stato fermato dalle forze dell’ordine il giorno dopo, arrestato mentre era a scuola come se quel fatto non avesse avuto alcuna rilevanza e ricaduta sul suo mondo interiore. 

A partire da questi due esempi, Recalcati articola la sua riflessione su quelle che chiama le “passioni della vita collettiva attuale”: l’invidia e il senso di onnipotenza. Tocca il tema, a lui caro, dell’assenza della paternità e quindi dell’attesa, da parte della nuova generazione, di una presenza autorevole e regolatrice.

Approfondisce il senso della legge, la sua interiorizzazione e il superamento del mero rispetto formale delle regole. Quindi indica come comportamenti patologici il bisogno di riempire il vuoto esistenziale con oggetti da possedere, come se fossero nuove forme di divinità pagane da adorare, e il rischio della regressione nostalgica ai “vecchi ideali” di una tradizione da contrapporre con violenza ad altri stili di vita.

Tutto questo percorso intercetta fatti di cronaca, citazioni cinematografiche, riferimenti alla mitologia e alla letteratura dell’antica Grecia, episodi tratti dalla politica degli ultimi anni.

Dinamiche che interpellano la coscienza collettiva

Nello sviluppo del discorso ci sono Papa Francesco, Silvio Berlusconi, Nanni Moretti e la famosa pesca dello spot di un noto supermercato che recentemente ha tanto fatto parlare di sé. Recalcati usa tutto il vocabolario del cristianesimo: peccato, tentazione, libertà, coscienza, vizio, senso di colpa, legge morale, idolatria.

Offre delle chiavi di comprensione delle dinamiche che interpellano la coscienza collettiva citando i grandi snodi della narrazione biblica come il peccato di Adamo. Lo fa davanti ad una sala gremita che al termine dell’incontro gli riserva un lungo e caloroso applauso: segno dell’apprezzamento per quanto ascoltato ma forse anche espressione del bisogno di parole di senso convincenti.

Con la maestria nell’uso del linguaggio e la competenza nel possesso dei contenuti che lo contraddistinguono, Recalcati restituisce una lettura del presente che individua i vuoti da riempire, indica gli inganni possibili, reinterpreta saggiamente il vissuto recente interrogandosi anche sull’eredità del COVID19, motiva il suo uditorio a investire su forme di relazione interpersonale solidali e vincolanti.

Convince citando Pier Paolo Pasolini che commenta l’Inno alla Carità paolino. Insomma, fa con il grado della perfezione molte delle cose che dovrebbero fare le persone di Chiesa nella loro azione pastorale. Forse varrebbe la pena imparare da chi è bravo.