Dialogo immaginario con la morte: “Stiamo perdendo la capacità di gestirla nell’ordinario”

“Un libro che vi piacerà. Da morire…”. Ne è convinto Don Diego Goso, che si fa carico di affrontare temi cruciali con agevole estro narrativo, regalando al contempo momenti esilaranti di genuina e calibrata comicità, riferendosi alla sua nuova creatura di carta: “Quattro chiacchiere con la Morte” (Edizioni San Paolo 2023, 142 pp., 14 euro), dove l’autore mette in scena un serratissimo dialogo con la Morte 

Abbiamo intervistato Don Diego, sacerdote della Diocesi di Ventimiglia-Sanremo, scrittore e conferenziere, docente di teologia della comunicazione presso il seminario e la scuola teologica, direttore dell’Ufficio di Comunicazioni Sociali, che è possibile trovare in ufficio al mattino ma il pomeriggio sulla spiaggia, perché profondamente convinto che per essere pescatori di uomini bisogna per lo meno vivere vicino al mare. 

“Chiudo ogni mia giornata con un bicchiere del cocktail Moscow Mule in riva al mare, ed è in quel momento che penso a libri come questo”, ci confessa don Goso, che ogni giorno sul sito www.dondiego.me dialoga con i suoi lettori di spiritualità, catechesi, educazione e informatica, con un occhio rivolto alla satira e alla politica.

  • Don Diego, ci descrive brevemente la trama del romanzo? 

«Il romanzo racconta le esperienze di morte che ho vissuto, cercando di farlo con tono leggero. Scrivo la storia di un sacerdote, che di notte, in camera sua, trova una figura che non dovrebbe esserci. Una persona che lo attende e ha le sembianze di una bella ragazza, che rivela a don Marco di essere la Morte. Dapprima il prete resta incredulo, poi don Marco e la Morte iniziano un dialogo che dura tutta la notte in cui il sacerdote si permette di fare tutte quelle domande che ciascuno di noi farebbe se si trovasse nei suoi panni». 

  • “Lodato sii, mio Signore, per la nostra sorella morte corporale, dalla quale nessun essere umano può scappare”, così scrive Francesco nel momento ultimo che lo avvicina all’incontro con la morte. Come può la morte essere sorella?

«Per Francesco la Morte rappresentava la porta con il Paradiso e l’incontro con il Signore. La compagna di viaggio che lo conduce finalmente a vedere Gesù. Ecco perché Francesco riveste la Morte di questo appellativo così dolce e bello. Nel romanzo descrivo la Morte come una bellissima ragazza. “Io sono un soffio che passa. Sono una porta”. Sbagliamo a pensare alla Morte come quel mostro orribile delle favole. “Io sono un attimo e niente di più”. “Non vi sono nemica, vi sono amica”. La Morte è un punto di congiungimento tra due realtà».  

  • Come si fa a superare la paura dell’“Oscura Signora”?

«Credo che non ci siano delle regole precise. In questi lunghi anni di sacerdozio, ho assistito molti moribondi, ciascuno davanti alla morte ha reagito in maniera diversa. Chi diceva di non avere paura del momento del trapasso, invece temeva la morte, chi invece diceva di essere terrorizzato l’ho visto addormentarsi nel Signore con profonda serenità. Per quanto riguarda la morte degli altri, se un caro ci viene strappato all’improvviso, è difficile affrontare il dramma con serenità e accettazione. Per ciascuno di noi l’esperienza della morte non solo è irripetibile ma anche unica nel modo in cui la affrontiamo. Nel libro cito San Giovanni Bosco, che ai suoi ragazzi faceva fare gli esercizi della buona morte. Nell’epoca durante la quale visse Don Bosco, siamo nell’Ottocento, era facile che i ragazzi morissero di malattia e di stenti già in giovane età. Quindi, il Santo voleva che i giovani fossero pronti a vedere “la partenza” di un amico o addirittura di loro stessi se il Signore li chiamava a sé. Sempre per far capire loro l’importanza dell’incontro con Dio».

  • Non crede che siamo assuefatti alla morte con le vittime ridotte a un dato matematico, vedi guerra in Ucraina e il Mediterraneo ridotto a un cimitero, al punto da perdere la percezione della ricchezza della vita? 

«Stiamo perdendo la capacità di gestire la morte nell’ordinario. Per esempio i giovani non partecipano ai riti funebri e negli ospedali la morte viene immediatamente nascosta. Non c’è più la veglia attorno al defunto, che era tipica di tante famiglie. Questo ci impedisce di riflettere sugli aspetti ultimi della vita. Seduti sul divano assistiamo alle cruente immagini, che provengono dal Mediterraneo o dal cuore dell’Europa. Quasi non proviamo più nulla e ciò ci rende disumani. Questo non va bene, dobbiamo ritrovare la capacità di indignarci, anche per dimostrare a noi stessi che non siamo spettatori passivi». 

  • L’idea di morte e i ragazzi: rifiuto o consapevolezza? 

«Vedo che i giovani tendono di più a dire “Addio”, invece devono imparare a dire: “Arrivederci”. Non c’è più tanto senso del trascendente. Il funerale non deve essere un grande momento di abbandono, ma deve essere il ricordo, il più sereno possibile, di un amico che si rivedrà. La Pasqua e Gesù risorto ci dicono una cosa chiara: Uno è tornato indietro per dirci che c’è un dopo. Questo dobbiamo avere il coraggio di dirlo».

  • Che cosa insegnano a don Marco quattro chiacchiere notturne con la Morte?

«Gli hanno insegnato ad accostarsi alla prossima morte in punta di piedi e con la speranza nel cuore. Forse don Marco non riesce ad avere la fede di Francesco, che chiama la morte “sorella”, ma alla fine di quel dialogo notturno la può chiamare “amica” ed è così che si salutano. “Ti rivedrò presto?” La Morte sorride, ma non risponde… ».

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