Giornata internazionale antiviolenza. Francesca Garbarino: ”Servono più educazione, responsabilità e consapevolezza”

Il 25 novembre è una data importante, la Giornata Internazionale contro la violenza sulle Donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. Ci chiediamo quando finirà questa barbarie arrivata in Italia il 22 novembre a 106 femminicidi in Italia dall’inizio dell’anno. Una cifra alta destinata a salire, ma dietro i numeri ci sono le donne, giovani e meno giovani, barbaramente uccise da uomini, che dichiaravano di amarle. Donne che hanno lasciato nella disperazione figli, madri, sorelle e amiche di una vita.

Per parlare della violenza perpetrata contro le donne, basata sul genere, ritenuta una violazione dei diritti umani, abbiamo intervistato Francesca Garbarino, criminologa clinica e giudice onorario presso il Tribunale per i minori di Milano, vicepresidentessa del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM), che collabora con U.O.MO (Uomini Orientamento e Monitoraggio) progetto affidato a una cordata di organizzazioni della rete antiviolenza e specializzate in attività di riabilitazione degli uomini maltrattanti, ed è formatrice nell’ambito del progetto SFERA organizzata dall’Università Bicocca sulla violenza di genere e il trattamento degli autori del reato.

  • Per quale motivo, sempre più spesso gli uomini si dimostrano incapaci di tollerare la libertà di mogli, fidanzate o ex, pianificando lucidamente e senza alcun ritegno e rimorso la loro uccisione?

«Non sono convinta che ci sia un aumento dei femminicidi, perché le ricerche criminologiche ci dicono che c’è un andamento sinusoidale. Trovo però allarmante questa costanza, a fronte dei cambiamenti normativi e anche a fronte del maggiore sostegno alle vittime e al trattamento degli autori. Sicuramente c’è una maggiore attenzione mediatica e un’attenzione dal punto di vista culturale e una maggiore sensibilità. Detto questo, l’incapacità da parte degli uomini di tollerare la libertà delle donne, credo che sia connessa alla maggiore autonomia che le donne oggi hanno rispetto a qualche anno fa. C’è una maggiore difficoltà degli uomini a far fronte a questi cambiamenti. La Lombardia ha il primato dei femminicidi e questa potrebbe essere una chiave di lettura, la Lombardia è una regione dove la maggior parte delle donne lavorano». 

  • La violenza maschile sulle donne non è un’emergenza ma un drammatico problema conosciuto e studiato da anni, dove per combatterlo non occorrono provvedimenti straordinari ma solo una ordinaria e attenta applicazione delle norme? 

«Le norme sono state tutte di urgenza, non c’è una legge organica sulla violenza di genere, ma una decretazione sempre un po’ sull’emergenza. Al giorno d’oggi sono stati fatti sul piano normativo degli enormi passi e ci sono delle grosse opportunità anche per gli autori di reato, per esempio sul piano trattamentale che fino a qualche anno fa non esistevano». 

  • In questi casi, quanto è importante la responsabilità della coscienza collettiva? 

«Abbiamo parlato finora della normativa penale, che riguarda quando è troppo tardi, quando i reati sono stati già commessi. Noi del CIPM, cooperativa che si occupa del trattamento degli autori di reato di cui sono la vicepresidente, siamo convinti che davvero un cambiamento decisivo sul piano del contrasto alla violenza di genere potrà venire solo da un cambiamento culturale di tutta la società. Cambiamenti della consapevolezza della necessità che gli autori o i potenziali autori di violenza possano chiedere aiuto, possano essere sostenuti in un percorso di cambiamento».

  • Si attiva nel guidare attraverso un percorso di recupero, basato sulla comprensione del profondo disvalore dei loro comportamenti, le persone colpevoli di atti riprovevoli verso una maggiore consapevolezza e responsabilità. Ce ne vuole parlare? 

«Il nostro è un trattamento, non una terapia. È uno spazio, un percorso di riflessione che viene offerto a chi ha commesso reati violenti o anche a chi è a rischio di commetterli, che favorisce una consapevolezza rispetto al disvalore degli atti commessi di cui queste persone tendenzialmente non hanno consapevolezza. Non hanno contezza né della responsabilità propria, che spostano sulla vittima o anche sulle leggi, sui giudici, è importante che invece arrivino a essere consapevoli della loro responsabilità e del danno che hanno creato. L’obiettivo è che non commettano più questi reati e chi non l’ha ancora commessi riesca a fermarsi prima di commetterli».

  • Viene spontanea la domanda se siano veramente pentiti. 

«I percorsi, dopo questi ultimi cambiamenti normativi sono un “po’” imposti. Queste persone hanno dei benefici in cambio della partecipazione a questi percorsi, quindi ci sono sicuramente delle partecipazioni strumentali. Sta a noi operatori riuscire a trasformare questa strumentalità in una partecipazione effettiva, autentica, in una comprensione reale della sofferenza inflitta di quanto si è commesso». 

  • Centri antiviolenza e Case rifugio. Sostenere le vittime di violenza significa offrire loro strumenti per ripartire, ricostruire la propria vita, raggiungere l’indipendenza

«Certo, questo è fondamentale. Il lavoro dei centri antiviolenza è basilare. Per il contrasto alla violenza di genere è necessaria una multidisciplinarietà, un lavoro in rete di tutti gli attori sociali, in primis coloro che si occupano delle vittime, che spesso non si autorizzano a riconoscersi come tali. Devono arrivare alla consapevolezza di essere delle vittime, e qui c’è un grande lavoro culturale da fare. Dopo di ciò le vittime devono essere sostenute. Fare una denuncia è anche rischioso se non si hanno gli strumenti per essere autonome. È inoltre fondamentale che i centri antiviolenza e i centri che si occupano del trattamento degli uomini che si chiamano CUAV, cioè Centro per Uomini autori di violenza, lavorino in sinergia come sottolinea la Convenzione di Istanbul». 

  • Chi si occupa degli orfani delle vittime della violenza di genere?

«Ci sono dei progetti pilota in Italia. Il CIPM Sardegna fa parte di tre macro progetti che sono deputati al sostegno degli orfani di femminicidio». 

  • La violenza è trasversale? 

«Sì, è multifattoriale. Tra i partecipanti ai nostri gruppi vi sono persone che appartengono ai più diversi ceti economico socio-culturali. Resta valida la regola che bisogna prevenire questi comportamenti, fin dalla scuola. Siamo tutti impregnati di questa cultura dell’ineguaglianza di genere, quindi è importante che le giovani generazioni, fin da bambini, imparino a riconoscerla». 

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